Omicron, i vaccini per la malattia dei bianchi e il confronto con l’Africa

scritto da il 20 Dicembre 2021

L’autore di questo post è Andrea Ciucci, PhD in filosofia contemporanea, prete cattolico, ufficiale della Pontificia Accademia per la Vita. Lavora sui nessi tra antropologia, etica ed esperienza religiosa, con particolare riferimento alle nuove tecnologie, alla comunicazione, alla condizione giovanile e familiare, al cibo. I suoi libri migliori sono per bambini. Twitta come @donciucci –

La scoperta della variante Omicron del virus Sars Covid 2 è stata percepita dai mercati di tutto il mondo come un ulteriore intoppo verso un ritorno alla normalità che ancora tarda a venire. La reintroduzione di quarantene e lockdown ha nuovamente messo in crisi settori strategici quali i trasporti e il turismo alla vigilia delle vacanze natalizie ma, come bene segnalano Patricia Cohen sul New York Times e Vito Lops sul Sole24Ore ha soprattutto rimesso gli operatori economici in uno stato di stand by causato dall’incertezza della situazione. La ricaduta economica della variante Omicron è stata subito evidente nella dura reazione del Sudafrica (luogo della prima apparizione certificata di questa variante) davanti al blocco di tutti i voli per il paese: una decisione nefasta per una nazione che ha nel turismo una voce significativa del PIL.

L’origine africana di quest’ultima variante ha riproposto con gran forza la necessità di gestire la pandemia a livello globale: fino a quando in tutto il mondo esisteranno aree dove il virus può diffondersi e mutare, l’intero pianeta sarà continuamente in allarme sanitario. Tale constatazione ha rilanciato in modo estremamente urgente i temi della vaccinazione dei paesi africani e delle politiche di distribuzione dei vaccini in questi paesi. La questione è ben riassunta dall’analista del Guardian, Larry Elliott: se non basta un criterio di giustizia e di solidarietà umana per motivare una diffusione nei paesi più poveri del mondo dei vaccini anti covid, sia almeno un motivo egoista a sostenere tale pratica, visto le ricadute economiche planetarie di una variante africana del virus. Secondo Elliott (e molti con lui) all’occidente conviene vaccinare il mondo perché solo così l’economia (altrettanto globale) potrà riprendere la sua crescita. La duplice motivazione (solidaristica e egoista) ha scatenato il rinnovarsi di appelli affinché le popolazioni soprattutto africane possano avere accesso immediato e gratuito ai vaccini, vuoi attraverso un ripensamento delle quantità di vaccini distribuiti nel mondo (attualmente acquistati nella quasi totalità dai paesi occidentali o comunque più ricchi), vuoi attraverso una diversa regolamentazione delle leggi sui brevetti, vuoi (a medio termine) mediante l’avvio di una produzione locale dei vaccini stessi.

Il ragionamento non fa una piega, almeno dal punto di vista occidentale. Se però si considera la questione dal punto di vista africano, i termini cambiano e non poco. La scarsa diffusione dei vaccini in Africa non fa i conti infatti solo con i prezzi esorbitanti dei preparati e con le insufficienti infrastrutture sanitarie necessarie per una rapida vaccinazione di massa. Ci sono almeno due obiezioni più strutturali che vanno tenute in considerazione.

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La prima è di ordine culturale e può essere così riassunta: la pratica vaccinale è comprensibile e giustificabile dentro il quadro della medicina occidentale che ci ha abituato a pensare alle malattie in termini di causa-effetto, con agenti patogeni (virus, batteri, ecc) tanto invisibili quanto pericolosi. Molto più incomprensibile (e quindi facilmente rifiutata) risulta invece tale pratica quando essa è proposta in contesti dove le medicine tradizionali costituiscono ancora il framework culturale entro cui è compresa e gestita la malattia. Ciò accade soprattutto lontano dalle grandi città culturalmente più aperte agli influssi occidentali, nei contesti rurali dove vive più della metà della popolazione africana, e dove è molto più difficile proporre una pratica medica che non cura una patologia in corso (per cui si avverte una necessità impellente), ma previene un possibile disturbo mentre si è sani.

La seconda obiezione si focalizza invece sulla motivazione egoistica presentata dall’occidente, confermandola e, per questo, rifiutandola radicalmente. Non poche voci africane si sono infatti mosse proprio contro questa motivazione, riconoscendo in essa una nuova versione del colonialismo europeo, collocando di fatto anche l’esitazione vaccinale che caratterizza anche ampi strati della società africana nella più ampia diffidenza verso tutto ciò che arriva da un occidente percepito come secolare predatore di risorse e vite umane africane. In sintesi l’obiezione può esser così espressa: se all’occidente sta a cuore la diffusione dei vaccini in Africa, non è per il bene dei suoi abitanti, ma per la tranquillità degli europei e degli americani.

Se davvero l’occidente è preoccupato per la salute delle popolazioni africane (anche per un sano motivo di sviluppo sociale ed economico) dovrebbe piuttosto affrontare – anche grazie all’investimento di risorse significative – le gravi questioni sanitarie che ancora oggi segnano tragicamente queste popolazioni.

L’emergenza sanitaria africana non si chiama Covid (da subito rinominata in Africa, certo in modo anche polemico, la “malattia dei bianchi”), bensì colera, malaria, febbre dengue, febbre gialla, ebola, come ben evidenzia l’ultimo report disponibile dell’OMS. Su queste emergenze, che mietono milioni di vittime ogni anno (nel 2021 la sola malaria ha causato 600.000 morti), certo non si registra lo stesso interesse e lo stesso impegno delle nazioni occidentali.

La pandemia ci sta obbligando a ripensare in chiave globale la questione sanitaria. Dobbiamo farlo sul serio e fino in fondo, non soltanto gestendo le emergenze secondo dimensioni planetarie, ma facendo la fatica di confrontarsi con punti di vista culturali eterogenei ed emergenze estremamente diversificate. Diversamente, ogni appello affinché si esca insieme da questa tragica pandemia potrebbe risultare solo fastidiosamente retorico.