Grexit, chi ci guadagna?

scritto da il 05 Luglio 2015

Si può discutere se la Grexit, l’uscita della Grecia dall’Eurozona, possa essere più o meno probabile dopo un SI o NO al referendum. C’è chi sostiene che il NO può rafforzare la posizione di Tsipras nel negoziato e spingere, quindi, i creditori a un atteggiamento più conciliante sulla cancellazione del debito. La mia impressione, invece, è che il “Greek Team” abbia irritato a tal punto gli europartner che con una vittoria del NO le probabilità di Grexit aumentino notevolmente.

Questo può avvenire in due modi: la BCE cessa di fornire liquidità attraverso l’ELA (Emergency liquidity assistance), sostenendo (ragionevolmente) che le banche greche sono insolventi e quindi non ne hanno più diritto; la banca centrale pone requisiti di garanzia più elevati per fornire liquidità e rende impossibile per le banche greche fare fronte alla corsa agli sportelli.

Il processo della Grexit potrebbe essere complicato da governare: nel breve periodo è probabile che produca una reazione a catena di fallimenti di banche e aziende, un crollo del mercato azionario e di quello immobiliare, perdita secca di ricchezza per effetto di patrimoniali sui depositi o dell’inflazione, la caduta della produzione e un’esplosione della disoccupazione e della povertà.

Chi si gioverebbe di tali eventi drammatici? La mia risposta sintetica è che tra i beneficiari ci sarebbero probabilmente l’Italia e gli Stati europei del Sud, tra cui la Francia.

Nell’estate del 2011 l’Italia e gli altri Paesi mediterranei, insieme con l’Irlanda, subirono gli effetti del contagio innescato dalla crisi del debito sovrano: i timori di default interessarono la parte più debole dell’Eurozona (si veda il paper scritto da me e Luca Zavalloni), dal momento che i mercati vedevano come probabile un’uscita di questi Paesi dall’area euro, sotto la pressione dei tassi d’interesse dei titoli di Stato e dei Cds (Credit default swap). In quella fase la Germania e altri Paesi considerati come porti sicuri beneficiarono di tassi d’interesse bassi.

È improbabile che questa volta si ripeta un simile scenario, per due motivi principali. Da una parte, l’Eurozona dispone di strumenti anti-contagio che non erano disponibili nel 2011: il fondo Esm, l’Omt (il piano anti-spread di Draghi), il QE, una pur imperfetta Unione bancaria). La BCE ha dimostrato di essere pronta a prevenire la dissoluzione dell’Eurozona. Dall’altra parte, l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo e, in misura inferiore, l’Italia hanno fatto i loro compiti a casa, in termini di disciplina di bilancio e di riforme strutturali. Sono fuori dalla recessione e hanno quindi meno probabilità di essere presi di mira come le prossime X-exit.

Se la Grexit avvenisse nel modo sopra descritto, Italia, Spagna (e Francia) potrebbero beneficiare, questa volta, delle ricadute politiche. Le immagini della corsa agli sportelli, delle proteste di piazza, della disoccupazione di massa, diffuse dagli schermi televisivi, servirebbero da spauracchio circa le possibili conseguenze di un’uscita dall’area dell’euro.

I movimenti no-euro subirebbero un duro colpo mentre i governi pro-euro ne uscirebbero rafforzati e maggiormente motivati a rendere effettive le riforme strutturali. I tassi di interesse della periferia, dopo una fase iniziale di rialzi, calerebbero rapidamente. Infine il canale di contagio del commercio, vale a dire la possibilità che le esportazioni dei Paesi del Sud Europa possano soffrire il ritorno alla dracma in Grecia, è improbabile che si riveli determinante, dato il peso limitato dell’export greco e la possibilità che imploda nel breve periodo.

Per parafrasare Joe Stiglitz, la Grexit può servire come strumento di disciplina per gli europei del Sud, proprio grazie ai suoi riflessi politici.

Twitter @pmanasse