Non temere il cinese in sé, ma il cinese in te

scritto da il 30 Luglio 2015

L’annuncio dell’acquisto di Italcementi da parte del gruppo tedesco Heidelberg Cement ha scatenato una ridda di reazioni e commenti che raccontano molto bene quanto sia fondata la Teoria della Relatività: la levata di scudi sul bene nazionale “scippato” dallo straniero è stata rumorosa, mentre nessuno ha avuto niente da ridire quando nello stesso settore l’italiana Buzzi Unicem rilevò la tedesca Dickerhoff. Ci si dimentica di alcune cose: l’accordo raggiunto fra il gruppo tedesco e la famiglia Pesenti riguarda il 45% dell’azienda, la quota di controllo, per tutte le altre azioni arriverà un’offerta pubblica a cui ciascun azionista potrà decidere se aderire o no. Poiché una quota importante di questi “altri azionisti” sono esteri (First Eagle Investments, ad esempio, detiene quasi il 10% della società) è evidente che ciò che fa inorridire sia il passaggio della quota di controllo, non la partecipazione al capitale di investitori esteri. E’ già qualcosa.

Trascurando il fatto che le necessità di crescita dimensionale, che derivano dal contesto globale in cui le imprese operano, potrebbe costringere comunque a guardare oltreconfine per fare progetti, joint-ventures, fusioni e acquisizioni, c’è da chiedersi quali regole dovrebbero impedire che un imprenditore che controlla una azienda quotata e valutata dal mercato 6 € per azione debba trovarsi impedito a vendere le sue quote a qualcuno che gli offre 10,6 €. Bisognerebbe indennizzare a priori in qualche modo gli imprenditori se esistesse una regola del genere, e non si capisce bene chi dovrebbe pagare (anche se evocare “l’interesse nazionale” fa intuire qualcosa). Forse bisognerebbe andare a chiedere una consulenza a Pechino, dove si cerca di addomesticare il mercato azionario ai desiderata del Partito?

Quello di desiderare che una manina santa sposti artificialmente il responso di un termometro è un impulso ricorrente: il governo Abe, in Giappone, combatte la deflazione più con ingegnosità monetaria che con riforme. Lo stesso, in un certo senso, potrebbe dirsi della Federal Reserve americana e della BCE, basta vedere come i mercati pendano dalle parole di Janet Yellen e di Mario Draghi. Tuttavia va riconosciuto che questi tentativi di anestetizzare i mercati riescono a curare i sintomi, molto meno la malattia.

Quando puntiamo il dito contro la Cina per il suo dirigismo, spiegando che non è con gli acquisti di Stato o con i divieti ad operare che si può fermare il repricing di un mercato a cui si è lasciato bellamente esagerare le valutazioni, torniamo ancora una volta sulle riforme. Quelle che servono alla Cina sono riforme che aiutino a rendere più vitali i consumi, che contribuiscono al PIL nazionale per poco più del 35%, quando negli Stati Uniti la quota è nell’ordine del 70%. Ciò significa dare capacità di spesa ai lavoratori, una struttura di garanzie e diritti che permetta loro di pianificare degli investimenti privati.

Il governo cinese forse spera di anestetizzare il mercato per il tempo sufficiente a permettere che l’economia nazionale giustifichi certe quotazioni, ma pare un approccio che disconosce l’impossibilità di imbrigliare totalmente il mercato.

In Occidente le riforme che occorrono sono altre, ma ugualmente non ne si può negare l’esigenza, prova ne è che il solo tampone monetario (cui non a caso Draghi abbina regolarmente l’invito alla politica a fare la sua parte) ha stoppato i crolli di mercato nel 2009 negli USA e l’impennata degli spread nel 2012 in Europa, ma è affiancato da una ripresa che – per citare Giorgio Gaber- “a farle i complimenti, ci vuole fantasia“.

E questo ci riporta alla vicenda Italcementi: l’unico disincentivo a vendere a cui il Pesenti della situazione potrebbe realmente accedere preservando l’italianità di un’azienda è un contesto economico vivido, stimolante, che consenta di credere con convinzione negli investimenti sul futuro, anziché far prediligere golose opportunità di monetizzare. La difesa dell’italianità delle prossime Italcementi passa dunque da quelle riforme che, da una parte, portino il paese verso una crescente competitività e, dall’altra, sono osteggiate maggiormente proprio dai paladini dell’italianità, che spesso respingono gli inviti al riordino politico bollandoli come insopportabili ingerenze a danno della sovranità.

Twitter @AndreaBoda