Come la teoria dei giochi spiega l’ascesa di Donald Trump

scritto da il 02 Marzo 2016

Che abbiate passato la nottata in compagnia di Mentana e qualche altro feticista degli exit poll o che vi siate svegliati riposati e ignari di quel che succedeva dall’altra parte dell’oceano, il verdetto del Super Tuesday repubblicano – l’unico che avesse qualcosa da dire – è ormai chiaro. Più o meno. Trump vince ma non sfonda, Cruz convince ma non spariglia, Rubio delude ma non crolla. La partita è aperta, ma il margine del milionario newyorkese comincia ad essere significativo e l’aritmetica delle primarie gioca a suo favore – specialmente ora che la competizione si sposta verso gli stati in cui il candidato di maggioranza relativa si accaparra tutti i delegati.

A ben vedere, Trump appare tutt’altro che imbattibile. Indigesto alla testa del partito e a gran parte della base, ha ottenuto poco più di un terzo dei voti repubblicani in queste primarie; in nessuno stato ha conquistato la maggioranza assoluta; solo in tre stati (Nevada, Alabama, Massachussetts) ha sfondato la quota del 40%. La sua corsa, sin qui, è stata puntellata dall’ego ingombrante e dallo scarso senso politico dei suoi contendenti: e – sebbene alcuni paiano scommettere sull’ascesa di un cavaliere bianco alla convention di Cleveland o persino al di là del perimetro del GOP – si può ipotizzare un metodo più efficiente e meno rischioso per fermare Trump: riunire il frammentato campo no-Trump alle spalle di un unico candidato. (Basterebbe?)

Naturalmente, è più facile a dirsi che a farsi. Su quel che passa nella mente di Carson e Kasich (33 delegati in due) conviene soprassedere. Le scelte di Cruz e Rubio appaiono più impegnative. Ciascuno avrebbe la possibilità concreta di sconfiggere Trump, se l’altro si ritirasse, e si ritirasse presto; tuttavia, nessuno ha interesse a farsi da parte, lasciando campo libero all’altro e restando a mani vuote. La situazione ricorda un modello d’interazione assai studiato dalla teoria dei giochi: gli anglofoni lo chiamano “gioco del pollo”, ma potremmo tradurlo con “gioco del fifone” – o “gioco del coniglio”, per preservare l’allegoria animalesca.

L’idea sottostante è stata applicata all’interpretazione di numerose vicende politiche – dallo stallo nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica alla trattativa tra Varoufakis e l’Unione Europea sul salvataggio della Grecia – ma la sua rappresentazione più celebre è quella inscenata in Gioventù bruciata: Buzz e Jim si sfidano a guidare a tutta velocità verso un dirupo; l’ultimo ad abbandonare il proprio veicolo, prima del tuffo nel vuoto, sarà il vincitore. Sennonché Jim finisce per buttarsi per primo, perché Buzz – spoiler alert – rimane incastrato nella portiera e vola per trenta metri insieme alle due auto. Tecnicamente vittorioso, ma con poco da festeggiare.

Tornando alle primarie, in modo appena più formale: se Cruz si ritira, rimane all’asciutto, ma Rubio guadagna una probabile nomination; se Rubio si ritira, accade l’inverso; se entrambi si ritirano, nessuno dei due guadagna alcunché; se entrambi rimangono in pista, ambedue finiscono a mani vuote. In questo la dinamica Rubio-Cruz si distingue dal modello del gioco del pollo: la resa simultanea e l’ostinazione congiunta sono sostanzialmente equivalenti – rimanessero entrambi in corsa fino alla fine, ci rimetterebbero probabilmente la faccia, ma non la pelle. Ciò non toglie che le soluzioni d’equilibrio siano le altre due, quelle che prevedono il ritiro di uno solo dei duellanti. Già, ma di quale?

Questo dipende da loro – il gioco non ce lo dice. L’esito ottimale sarebbe più probabile se uno potesse offrire all’altro una via d’uscita onorevole: tipicamente, la candidatura alla vicepresidenza. Ma, pur considerando il disgelo con l’Avana, sfidare i democratici con un ticket tutto cubano non pare una strategia particolarmente brillante. Qualcuno ha ipotizzato che Rubio possa promettere a Cruz il posto di Scalia alla Corte Superma: ma ciò presuppone che i repubblicani riescano a temporeggiare fino a gennaio e, soprattutto, che poi Cruz – non esattamente l’uomo più popolare del Senato – attraversi indenne la procedura di conferma. Ma potrebbe accadere anche che, invece di ricorrere a promesse, uno dei due tenti di forzare la mano dell’altro con le cattive maniere: per esempio, la minaccia di restare in corsa, costi quel che costi, o persino quelli di ritirarsi, ma facendo convergere i propri sostenitori sul nemico comune.

Il quadro si complica se consideriamo che, sebbene entrambi i candidati siano relativamente giovani, la possibilità di giocarsi la nomination (e la presidenza) si ripresenterà – nel migliore dei casi – fra quattro od otto anni, ma potrebbe persino non ripresentarsi più. Per questo serviranno, da entrambe le parti, argomenti convincenti e credibili. Intanto, il tempo scorre e il rischio è che – come Jim e Buzz – Cruz e Rubio si ritrovino, tra poche settimane, uno a terra e l’altro nel burrone, mentre Trump a bordo strada si gode lo spettacolo. Tra i due polletti, il tacchinaccio gode.

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