Quando lo stimolo monetario si rivela un freno al credito (e non solo)

scritto da il 12 Maggio 2016

Il tasso di interesse è ormai trattato come qualcosa di fastidioso, da eliminare se si vuole che le cose migliorino. Ci è stato insegnato che per stimolare l’economia le Banche Centrali devono abbattere i tassi manovrando quelli sotto diretto controllo: più basso costo dei fondi sostenibilità dell’indebitamento per consumo, redditività dei business maggior domanda di credito banche invogliate ad assecondare la domanda data maggior sostenibilità e redditività. L’altra possibilità è riempire le banche di liquidità “costringendole” a prestare, così che l’incremento dell’offerta tiri giù i tassi di interesse, e si torna come sopra.

Esiste però anche la possibilità che lo schiacciamento dei tassi di interesse verso lo zero sia almeno in parte causa della cattiva performance del credito (e non solo).

Le banche non sono passive come la teoria mainstream postula. La concessione del credito sottostà alla valutazione del rischio del credito stesso in relazione al prenditore ed al progetto che si intende finanziare. Questo perché la clientela non è tutta uguale: si va da imprenditori impegnati in progetti poco rischiosi, ma con redditività attesa contenuta, ad altri impegnati in progetti molto rischiosi ma con redditività attesa elevata, a cui devono essere applicati tassi di interesse diversi (più elevati ai primi) per coprire la rischiosità dei progetti ma senza selezionare solo la clientela più rischiosa (come accade applicando un uniforme tasso di interesse “elevato”).

Si entra così in un mondo di adverse selection (esclusione della clientela migliore), moral hazard (falsificazione a posteriori dell’impegno), signalling (come a fortiori il debitore rivela le proprie caratteristiche) e monitoring (controllo dell’impegno) che non si può liquidare con qualche algoritmo basato su banche dati e tassi della Banca Centrale. In assenza di una capacità di analisi della rischiosità del singolo debitore, la banca potrà solo gestire “in massa” il rischio razionando il credito.

In letteratura (Stiglitz, Weiss, Akerloff e via dicendo) una soluzione alla adverse selection è il signalling: calibrare diverse soluzioni di finanziamento lasciando che il cliente, attraverso la propria scelta, “segnali” il rischio di cui è portatore. Stilizzando molto, le alternative di finanziamento possono oscillare tra un tasso di interesse “basso” assistito da una garanzia “elevata” del richiedente, ed un tasso di interesse “alto” assistito da una garanzia “bassa”. Chi sa di intraprendere un progetto poco rischioso può permettersi di concedere maggiori garanzie pur di spuntare un tasso di interesse più basso (coerente con la propria minor redditività attesa), mentre chi intraprende un progetto molto rischioso avrà la tendenza a ridurre le garanzie prestate “scambiandole” con un tasso di interesse più alto (coperto dalla propria maggior redditività attesa). Ed effettivamente questo è uno dei modi in cui le banche hanno in passato sostenuto la propria analisi del credito.

Sì è chiaramente disposti a sostenere dei rischi prestando una significativa garanzia se il vantaggio in termini di minor tasso di interesse è anch’esso significativo. Ma nell’era dei tassi minimi, con lo schiacciamento di tutti i tassi verso lo zero, la gamma dei tassi praticabili si riduce molto fino a diventare “insignificante. Cioè i tassi (tutti) bassi tendono a rendere più appetibile la minimizzazione del rischio rispetto al suo bilanciamento con il tasso di interesse. Ma se la clientela va a concentrarsi su un solo tipo di opzione (garanzia più bassa), la banca perde qualsiasi corrispondenza tra rischio e tasso a sua copertura, incorrendo pure in fenomeni di selezione avversa. Questo può portare la banca a concentrare l’offerta su finanziamenti più garantiti (accessibili solo a chi può prestare le garanzie richieste) e alla limitazione generale del credito per gestirne in aggregato la rischiosità (razionamento). Da una tale situazione non ci si possono aspettare sostanziosi incrementi degli impieghi bancari se non in specifici ambiti.

Questo fenomeno perverso sarà più evidente là dove i tassi di interesse si sono maggiormente ridotti più per fenomeni politici esterni che per riforme economiche interne. Pensando all’Europa, i candidati sono chiaramente le economie mediterranee, prima per la convergenza dei tassi ai livelli “tedeschi” in sede di creazione dell’area euro, poi per il supporto whatever it takes della BCE. Questo non spiega interamente l’andamento del credito europeo ed italiano o l’emersione delle note debolezze bancarie, ma è comunque un pezzo del puzzle complessivo, di cui di seguito uno schizzo.

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Dato che l’economia europea si è trovata in difficoltà, con tanto di pericolo “credit crunch”, la politica monetaria è stata chiamata a sostegno. La sostanziale tenuta degli impieghi (pur non omogenea tra i vari paesi) testimonierebbe la capacità dello stimolo monetario di contrastare le spinte alla contrazione del credito. Nella lettura che ho proposto, invece, l’estremizzazione dello stimolo monetario – svilendo il valore economico del tasso di interesse – starebbe invece danneggiando l’attività creditizia soprattutto nei paesi più “deboli”.

Qui si innesta la normativa sul capitale di Vigilanza delle banche (Basilea), sorta per “costruire” una reputazione di solidità del sistema attraverso parametri “certi e trasparenti” sulla rischiosità specifica dei diversi impieghi della banca: i titoli di stato con rating AAA hanno un coefficiente zero mentre per quelli con rating BBB è il 50%, ma la normativa permette una ponderazione a zero per i titoli di tutti i paesi OCSE (quindi i BTP sono ponderati a zero invece che al 50%); le PMI hanno un coefficiente di favore del 75%; le imprese con rating BBB o senza rating hanno un coefficiente del 100%; i mutui residenziali hanno un coefficiente del 35%. Sulla somma di tali valori ponderati (Risk Weighted Asset, RWA) viene calcolata la capitalizzazione minima richiesta alla banca, e quindi – a capitale dato – lo stock complessivo di credito che può essere concesso.

Se si ha difficoltà a valutare nel dettaglio il rischio del proprio portafoglio (come in caso di svilimento del signalling), questi coefficienti possono diventare “determinanti” per le strategie creditizie. Un ulteriore effetto collaterale della zero interest rate policy è quindi spingere il sistema bancario a “seguire” le indicazioni della normativa come una effettiva politica creditizia più orientata verso le Pubbliche Amministrazioni e l’immobiliare residenziale. In effetti, dai dati già riportati, si ricava il maggior sostegno alla Pubblica Amministrazione (differenza tra l’andamento degli impieghi complessivi e quelli ai privati). Ma i dati ABI riportano anche un incremento dello stock di credito alle famiglie a scapito delle imprese (nel 2015: +0,8% le prime, –0,7% le seconde), ed un incremento dello stock di mutui ipotecari (2015: +0,7%) in cui le transazioni sul comparto residenziale (+6,5%) surclassano quelle del terziario (–1,9%) e del produttivo (–3,5%). Appunto.

Questa evoluzione del credito non è positiva per l’economia soprattutto nel lungo periodo: si sostanzia in una canalizzazione del credito verso settori più maturi e “tranquilli” a scapito di quelli più rischiosi ed “esuberanti”. Ma sono questi ultimi a consentire l’introduzione nel sistema economico di nuovi processi produttivi, attività, prodotti e tecnologie, proprio gli elementi che permettono lo sviluppo dell’economia sul più lungo periodo.

Su andamento e prospettive del PIL è stato già scritto (e ripetuto) molto. Sui danni dei tassi zero si sta cominciando a scrivere adesso. Ora avete un nuovo spunto di riflessione.

Twitter @LBaggiani

N.B. [Elaborazione dal mio intervento al convegno “La valutazione e la gestione dei crediti nelle imprese in bonis e nelle procedure concorsuali”, SAA – School of Management, Torino (cfr. Diritto ed Economia dell’Impresa n.2/2016)]