Il ceto produttivo, le tasse e l’indicibile speranza che il mondo torni come era prima

scritto da il 21 Febbraio 2018

La campagna elettorale incombe ed i partiti promettono oro, incenso e mirra per tutti. Molti commentatori hanno giustamente evidenziato l’inconsistenza delle promesse ed il pericolo per i nostri già traballanti conti pubblici.

Quello che però più mi colpisce è il comportamento del ceto produttivo. Fino a qualche anno fa i “produttori” (intendendo impropriamente con questo termine – me ne scuso con chi nel pubblico lotta ogni giorno per fare bene il proprio lavoro – sia imprenditori sia lavoratori dipendenti del settore privato) chiedevano a gran voce seppur in maniera confusa e spesso folkloristica:

– Riduzione delle imposte;

– Miglioramento della qualità della spesa pubblica e dei relativi servizi erogati;

– Federalismo fiscale o comunque un maggiore controllo da parte del cittadino sullo Stato e sulla sua burocrazia.

La richiesta che la parte più dinamica del Paese faceva al ceto politico era più o meno riassumibile in un, se volete ingenuo, “lasciateci lavorare”.

Oggi complici lunghi anni di crisi e un ceto “produttivo” (perdonate l’uso delle virgolette ma sono necessarie) ancora in grande difficoltà le richieste sono ben diverse. Non si pretende più che il comandante della nave tracci la rotta ma che il mozzo getti un salvagente a cui aggrapparsi stremati.

Se prima si teorizzava la riduzione del perimetro statale oggi sempre di più si chiede la complicità dello Stato.

I “produttori”, forse disperando di vedersi ridurre l’imposizione fiscale, ormai si uniscono al coro di chi vuole partecipare al saccheggio del gettito attraverso agevolazioni, incentivi di ogni tipo, nuovi adempimenti burocratici a favore della propria categoria, nuovi tavoli e poltrone. Recentemente ho letto di progetti per riabilitare il ruolo del CNEL che fino a ieri si chiedeva di abolire.

Stupisce in questo senso il silenzio assordante, in campagna elettorale, sui referendum per l’autonomia di Lombardia e Veneto. Giusti o sbagliati che fossero è imbarazzante che non trovino spazio del dibattito politico.

Ci si è arresi, si è smesso di voler semplificare, di voler far funzionare ciò che c’è, rifugiandosi nell’illusione che la salvezza sia una nuova authority, un nuovo tavolo di concertazione, un nuovo livello burocratico (l’ennesimo) che si aggiungerà ad un apparato pubblico sempre più vasto ed autoreferenziale.

Un tempo pretendevamo una burocrazia pubblica (che consideravamo una risorsa) efficiente, traino per la domanda di rivoluzione digitale del Paese. Oggi i Venture capital chiedono sempre di più di operare con soldi pubblici. Decisamente debole e scoraggiata è la voce di chi vorrebbe un sistema fiscale chiaro e coordinato, un sistema giudiziario veloce e giusto, fondi per scuola, università e ricerca, ecc. Volgarmente, norme di interesse generale al posto di norme di interesse particolare.

Non abbiamo più la forza di pretendere, ci limitiamo ad elemosinare. La qualità della classe politica a questo punto risulta indifferente non essendo più incaricata dall’elettore di far funzionare l’apparato statale ma solo di firmare l’ennesimo micro assegno, di elargire qualche spicciolo in attesa che il mondo torni come era prima. Prima della globalizzazione, di internet e forse anche dell’invenzione della macchina a vapore.

E se le cose non dovessero tornare come prima si può sempre sperare in un impiego pubblico (non aiutando l’apparato burocratico ad essere più produttivo) o in un sussidio.

Non chiediamoci con quali soldi però. È una domanda che fa male. Perché ci ricorda che la colpa è di noi elettori.

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