Norme e fisco, ci mancava solo la sharing economy…

scritto da il 29 Gennaio 2016

Osservo con non curiosità il crescente dibattito sul travagliato rapporto del nostro Paese con la sharing economy.

Partiamo come di consueto dalla definizione che compare su wikipedia: “Il termine consumo collaborativo definisce un modello economico basato su di un insieme di pratiche di scambio e condivisione siano questi beni materiali, servizi o conoscenze. È un modello che vuole proporsi come alternativo al consumismo classico riducendo così l’impatto che quest’ultimo provoca sull’ambiente.”

È un approccio a quanto pare molto moderno nella gestione delle risorse, possiamo:

– muoverci grazie al car sharing, car pooling e bike sharing;

– lavorare in un coworking;

– risparmiare sul taxi grazie ad Uber;

– risparmiare sull’albergo grazie a Airbnb;

– mangiare “social” con Gnammo;

eccetera…

Non si comprende bene se questi servizi ci facciano sentire più liberi (sicuramente l’aumento di concorrenza in ogni settore resta sicuramente un valore) o certifichino che stiamo diventando più poveri (trasformando il possesso in servizio). Probabilmente entrambe le cose.

Ci troviamo di fronte ad una interessante rivoluzione del servizio in cui aziende che possiedono il loro software o poco più diventano multinazionali leader di settore ridisegnando la concorrenza ed il mercato. Uber, la più grande compagnia di taxi al mondo, non possiede automobili. Airbnb, il più grande hotel al mondo, non possiede alcun immobile. L’accademia parla pomposamente di “distruzione creativa”, ma già diversi anni fa, sindaco di una importante società di logistica, avevo ben chiaro che la forza dell’impresa era nell’organizzazione ed ottimizzazione dei viaggi e nel software che li gestiva. Lì c’era il valore, lì i rischi da monitorare.

Sicuramente oggi il fenomeno acquista una rilevanza ben più ampia per i numeri, per la tipologia dei soggetti coinvolti (in bilico tra esser considerati privati o piccoli imprenditori, giuridicamente comunque poco preparati) e per la giusta attenzione riservata dai media.

Si presenta quindi una occasione storica di ripensare il mercato e le sue regole che nel nostro Paese viene come sempre persa nell’ennesima guerra tra Guelfi e Ghibellini dove partigiani di entrambe le sponde dibattono guidati solo dal proprio interesse personale (che in periodi di crisi come questo, lo comprendo bene, spesso significa lottare per la sopravvivenza).

Non entro sulla faticosa vicenda di Uberpop ben riassunta in un articolo “UberPop: la colpa non è dei giudici, ma dei politici”  di Giacomo Lev Mannheimer dell’Istituto Bruno Leoni a cui rimando.

Dall’articolo però emerge un primo alibi: il giudice si trova in difficoltà perché deve applicare una legge pensata quando ancora il legislatore “non conosceva … le possibilità oggi date dall’innovazione”. Compito del Legislatore in realtà dovrebbe essere quello di concepire ed approvare norme semplici e di carattere generale cosi da renderle flessibili e facilmente adattabili all’evoluzione dei tempi.

Dal canto loro gli alfieri del progresso giustamente chiedono: “Tutelate la sharing economy dagli attacchi conservatori e protezionistici, come il progetto di legge della Regione Lazio contro le attività ricettive non alberghiere”.

Gli operatori tradizionali, altrettanto giustamente, rispondono accusando i nuovi entranti sul mercato di mettere in atto una concorrenza sleale al servizio da loro offerto e spesso fortemente regolamentato e tutelato da licenza ecc.

Appare del tutto evidente che all’interno dello stesso mercato non è possibile che si confrontino operatori soggetti a norme e regolamenti (spesso vincolanti ed assurdi ma da sempre tollerati in cambio di protezioni e licenze) ed altri che in nome di un fantomatico progresso pretendano di svolgere attività di impresa senza soggiacere alla medesima tassazione ed adempimenti vari.

Lo stesso Mannheimer ci illustra le assurdità del Regolamento n. 8/2015 della Regione Lazio in tema di strutture ricettive extralberghiere, in cui con minuziosa dovizia di particolari si regolamentano le dimensioni delle stanze e la presenza o meno di lampade sul comodino. La lettura del regolamento e degli allegati non può far altro che accrescere il senso di smarrimento che il povero cittadino prova già quotidianamente ogni volta che affronta l’italica burocrazia.

Scopro inoltre che in questi giorni è stato stipulato un accordo tra Comune di Firenze ed Airbnb per il pagamento dell’imposta di soggiorno, annunciato con la piena soddisfazione del sindaco: “Questo accordo è un passo in avanti molto concreto e assolutamente innovativo – ha detto Nardella – È l’esperienza più avanzata in Italia tra una città ed Airbnb, il colosso della sharing economy nel campo turistico per le locazioni on line”.

In tutto questo passare dalla difesa delle gilde medioevali al proiettarsi in un futuro che a me pare sempre più simile a quello della tanto famosa quanto datata serie “Spazio 1999” non nascondo di essermi perso.

Sarà interessante vedere come il Legislatore deciderà di affrontare il tema, non sarà facile contemperare le esigenze degli operatori tradizionali con quelle della sharing economy. Oggi si tende (ascoltando le richieste pressanti ed a volte un po’ deliranti dei nuovi entranti sul mercato, spesso sostenuti da liberisti a contratto) a voler creare nuove regole ad hoc.

Io credo in realtà che sarà necessario semplificare quelle a cui sono soggette le attività tradizionali adattandole ai nuovi competitor. Diventa sempre più urgente una profonda riforma delle regole sulla concorrenza, deregolamentando molti settori, individuando regole certe ad esclusiva tutela del cittadino/cliente.

Sarà necessario operare seguendo almeno tre principi chiave:

1) l’innovazione è così veloce che potranno essere rispettate solo norme semplici e scarsamente regolamentate;

2) i principali nuovi competitor sono cittadini che vogliono arrotondare lo stipendio ma non sono in grado di conformarsi a normative complesse e onerose (es. chi affitta la casa, chi guida per uber, ecc). Parimenti, non potendo penalizzare gli operatori tradizionali anche questi dovranno beneficiare delle stesse semplificazioni, operando con le medesime regole (ha ancora senso oggi, quando tutti disponiamo di un navigatore, richiedere ad autisti e tassisti di superare un esame in cui dimostrare di conoscere a memoria le strade cittadine?);

3) Il fisco, se vorrà garantire il gettito, dovrà imparare a fornire guide chiare e comprensibili al cittadino (non si potrà pretendere che gestisca le stesse complessità di chi fa impresa) e contemporaneamente dovrà acquisire dalle multinazionali i database dei loro clienti (sicuri che tutti i compensi occasionali derivanti da Airbnb siano correttamente dichiarati?) o prevedere un meccanismo di ritenute alla fonte (su queste proposte però nutro ben poche speranze, basti vedere la normativa del regime forfettario 2016, che per essere un regime semplificato appare parecchio complicato).

Siamo di fronte ad una occasione straordinaria di ripensare il modo stesso di legiferare (che in realtà avrebbe sempre dovuto ispirarsi a questi principi ma forniamoci un alibi consolatorio se può essere utile per provare a cambiare).

Purtroppo le lobby e il desiderio di visibilità del politico di turno, in trepida attesa di creare una norma ad hoc di cui vantarsi con gli altrettanto biasimevoli elettori della benemerita società civile, non aiuteranno in questo.

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