PMI e startup: davanti a una cioccolata calda si torna a parlare di sci

scritto da il 05 Marzo 2016

Nel mio ultimo post su Econopoly – “Cosa c’entra lo snowboard con PMI e startup? L’importante è capirsi” – ho posto il problema della scarsa contaminazione e della necessità di dialogo tra PMI e startup, soggetti che paiono spesso parlare linguaggi differenti.

Vera o presunta che sia questa questione di incomunicabilità (alcuni l’hanno negata con forza), non vi nascondo una certa soddisfazione nel constatare che l’articolo ha provocato un ampio dibattito in rete. Di questo sono molto soddisfatto, essendo uno dei miei obiettivi dichiarati. Come scrivevo non ho soluzioni preconfezionate (sarebbe sciocco averle) ma stimolare il confronto tra imprese (PMI o startup che siano), professioni ed accademia sul tema è importante ed urgente.

I contributi alla discussione sono stati numerosi e autorevoli e mi è sembrato giusto raccogliere qui i più significativi per non perdere riflessioni importanti sparse nei miei canali social e ringraziare chi si è prestato con generosità nel tentativo di approfondire il tema.

La cosa che più mi ha fatto piacere è che insieme a big data, open innovation e lean startup sono riapparse parole come artigianato, filiera e distretto. Perché alla fine tutto quello di cui stiamo parlando non è altro che fare impresa ed è solo avendo il coraggio di rinnovare profondamente le strutture fondamentali, senza scorciatoie troppo facili e modaiole, che riusciremo nell’intento.

Open innovation e filiera sono in particolare due concetti che mi interessano molto. Di questo però parleremo un’altra volta, ora è giusto lasciare spazio ai commenti.

Francesco Venier
Professore e Associate Dean for Executive Education alla MIB School of Management, Trieste

“A mio avviso il vero nodo della questione è il business model. Le startup innovative sono piccole organizzazioni, a volte semplici idee nella testa di una sola persona, alla attiva ricerca di un BM sostenibile. La loro sfida è enorme, devono verificare se esiste il bisogno che loro pensano di soddisfare con il loro prodotto, alle volte non hanno neppure il prodotto perchè devono ancora risolvere alcuni problemi tecnologici. Le PMI incumbent invece hanno un prodotto e un mercato che conoscono, hanno un know how consolidato e soprattutto hanno una storia che ha insegnato loro molto. Quello che spesso manca loro è competenza sugli aspetti finanziari o di marketing (sanno vendere ma non valorizzano a sufficienza i loro intangible assets, che sono la vera leva di differenziazione dai concorrenti globali low cost).

Nessuna delle due caregorie di imprese ha “slack resources” da dedicare a rapporti che non siano chiaramente finalizzati e focalizzati quindi credo che salvo rari casi il menage non sarebbe molto produttivo.

Le PMI più che del rapporto con le startup potrebbero giovarsi di un rapporto con le business school che aiuti gli imprenditori a complementare le proprie competenze e a guardare al proprio business model dall’esterno. Secondo me, le startup più che da un rapporto con le PMI trarrebbero giovamento da un rapporto con il mercato vero, che facesse rapidamente pulizia delle migliaia di zombie tenuti in vita solo per giustificare le infrastrutture pubbliche (e relativi stipendi) preposte ad alimentarli e dirottasse le risorse liberate ad essere investite sulle startup capaci di diventare PMI prima e scalare poi e sulle PMI, e ce ne sono molte per fortuna, che hanno già trovato la formula per crescere in questo nuovo mondo ma non trovano le risorse per finanziare, e gestire a livello di nuove competenze, tale crescita.

Andrea Ridi
CEO e cofondatore di Rulex

Voglio essere provocatorio: non è che c’è poco dialogo perché molte startup sono come come quegli sciatori che passano tutto il giorno in baita a raccontare quanto sono bravi, ma mai nessuno li ha visto sciare? Accusare le PMI di essere dei morti che camminano è lecito, ma penso che questa accusa possa essere mossa solo da chi ha dimostrato di essere in grado di andare sul mercato e non da gente che si sente “startapparo” perché ha fatto un paio di pitch. Quindi il mio invito è selezioniamo gente seria e pronta a mettersi in discussione e scopriremo che i due mondi già parlano e collaborano e che assieme si possono fare grandi cose.

Giorgio Roverato
Professore di Storia economica e dell’Impresa presso l’Università degli Studi di Padova

Non so se tra PMI e startup, si può davvero parlare di incomunicabilità. Probabilmente si trattta solo di distanza “culturale” e di qualche reciproco “snobismo”… Dove la PMI sembra dire che “sì, io piccola impresa, sarò anche poco innovativa, ma sul mercato ci sto da tempo e so come muovermi; tu sei appena arrivata, credi di essere chissà che cosa, ma stenti a farti spazio”; mentre la coccolatissima startup, magari spin-off universitario, vincitrice di qualche premio, risponde che comunque lei è “più avanti”, e che alla fine saranno le imprese come lei le uniche a rimanere sul mercato della competizione globale.

Ma sbagliano entrambe: come del resto la storia delle varie rivoluzioni industriali dimostra. Non è mai esistito in natura che un nuovo (e innovativo) modo di produzione (o di fare impresa) faccia davvero scomparire del tutto quelli precedenti. I quali possono magari temporaneamente scomparire, ma poi, in qualche modo, riemergono. Pensiamo all’alto artigianato, al vero “lusso” (e non a quello delle griffe, altrimenti – e con sprezzo del ridicolo – definite del “lusso accessibile”), ma anche a nicchie tecnologice di elevata qualità, a quelle che producono “pezzi” su misura per singoli e sofisticati processi produttivi…

Il che sta a dire che modi diversi di produzione possono coesistere, magari contaminandosi con reciproche sinergie. Solo che ci deve essere il terreno di coltura adatto: che non è detto che non sia, al posto dei troppo “mitizzati” incubatori, il perimetro spaziale (e “comunitario”) di quei distretti industriali troppo presto dati per irrimediabilmente in via di estinzione (o comunque superati) da qualche avventato economista… E invece essi sono ancora tra noi, spesso vivificati dall’incrocio e contaminazione di queste due culture: incrocio che magari avviene “obtorto collo”, stante il reciproco snobismo di cui sopra, ma che alla fine produce i suoi frutti… ancora timidi, ma io credo sempre più destinati a moltiplicarsi.

Circa il tema […] dell’abbattimento delle barriere anche tra PMI e grande impresa, io credo che esso possa verificarsi solo sulla base di una effettiva partnership di filiera, in cui la PMI partecipi alla progettazione di un prodotto dato, o di una sua componente “strategica” e non sia solo il produttore terzista di un bene progettato dalla grande impresa. Qui non vi è tanto il rischio di fagocitazione, bensì quello – concretissimo – della “dipendenza”! E ciò si ha quando le commesse terziste assorbono tutta la produzione di una PMI, e di fatto la espellono dal mercato: esse finiscono infatti per avere un unico grande cliente, che non contratta più il prezzo di esecuzione di un bene ma lo impone. O la PMI accetta, o essa è fuori, senza più alcuna possibilità di sopravvivenza. Se invece il rapporto con la grande impresa significa far parte di un network di imprese, dove la PMI è partner della progettazione, e dove essa conserva la propria autonomia mantenendo la presenza su mercati, altri e distinti da quello della filiera, il rapporto diviene allora virtuoso: con benefiche contaminazioni, e ritorni, per la PMI sia per la grande impresa.

[…] I casi virtuosi, già l’ho accennato, sono invece quelli della coprogettazione, e della capacità della piccola impresa che lavora per un grande gruppo di mantenere la propria autonomia, ovvero di non esaurire con il grande committente tutta la propria capacità produttiva. E ciò si verifica nella meccanica sofisticata, ma anche in fasce alte dell’abbigliamento qualora l’organizzatore del network sia esso stesso produttore, e non solo organizzatore dei flussi produttivi delle imprese satelliti.

Fabio Pistella
Ex presidente del CNR

Condivido la chiave di lettura: se una PMI vive e cresce attraverso occasioni di innovazione, ogni volta ripercorre per molti aspetti una fase di start-up. Però ha più chance di successo perché conta su quel know-how che una volta si chiamava avviamento, spesso impalpabile, ma di grande valore. Può aiutare a descrivere la situazione l’immagine di un albero che accoglie un innesto rispetto a una nuova pianta messa a dimora: quest’ultima è più soggetta ai rischi dell’attecchimento e della prima fase di crescita. Sosteniamo dunque anche l’innovazione in una PMi esistente per realizzare la possibilità di una nuova fase di crescita. Nella competizione globale chi si ferma è perduto.

In ultimo Alberto Di Minin, professore associato allaScuola Superiore Sant’Anna di Pisa, contribuisce al dibattito segnalando un suo articolo di qualche mese fa su Nova: “Carlos Moedas collega i puntini: SME Instrument e Open Innovation”.

Ora non ci resta che tornare a sciare e dimostrare di avere buone gambe.

Twitter @commercialista