Le Olimpiadi, il ponte e l’interpretazione dei sogni

scritto da il 01 Ottobre 2016

C’è un filo rosso che unisce l’abortita candidatura olimpica di Roma e il repentino ripescaggio del ponte sullo Stretto: è l’attività onirica di Matteo Renzi. A proposito dei Giochi, il presidente del Consiglio aveva invitato la classe politica «a recuperare la propria dignità proponendo un sogno per il paese; e allora le Olimpiadi in Italia non sono semplicemente una manifestazione sportiva: sono un sogno, un’idea, un progetto»; un sentimento rievocato a proposito del vecchio-nuovo piano di contrasto all’insularità della Sicilia: «l’Italia in questi anni non ha avuto sempre la forza di progettare il futuro: recuperare la dimensione del sogno è fondamentale».

Una posizione analoga è stata articolata su queste colonne da Beniamino Piccone, secondo il quale la rinuncia a Roma 2024 tradisce la scarsa autostima del paese e l’incapacità d’immaginare un futuro migliore per le nuove generazioni. L’argomento ha avuto ampia eco nelle ultime settimane, eppure devo confessare che fatico a condividerlo. Anche foderare piazza Navona di cialda e inondarla di gelato al pistacchio sarebbe un’impresa d’ardua progettazione, dal discutibile ritorno economico e in grado di attirare un’attenzione planetaria: ma un primo ministro che suggerisse una simile iniziativa sarebbe prelevato da Palazzo Chigi in camicia di forza.

Il punto non è sognare: è sognare i sogni giusti. Come distinguere le valide aspirazioni dai colpi di sole, le suggestioni ambiziose dai salti nel vuoto, se escludiamo che l’identità del sognatore sia un criterio accettabile? Impostare la polemica sul confronto tra coraggiosi visionari e tetri signori del no è un’operazione di marketing politico senz’altro legittima, ma che ci allontana dal merito delle scelte. In altre parole, non basta riconoscergli la qualifica di sogno per sottrarre un progetto al vaglio rigoroso della realtà: a maggior ragione ove si consideri che le risorse destinate ai sogni dovranno essere distolte da finalità meno appariscenti ma non necessariamente meno lungimiranti.

La retorica del sogno rimanda – per usare una felice formula di Raffaele La Capria – a quella «psicologia del miracolo» che induce a vivere «sempre nell’attesa di un fatto straordinario tale da mutare di punto in bianco la […] situazione». Che l’Italia sia un paese sull’orlo della disperazione – e forse un po’ oltre – è innegabile: che il problema si possa risolvere con un paio di colpi scenografici, anziché con un paziente lavorìo di rammendo strutturale, è un’illusione pericolosa.

A quest’abbaglio, se ne associa un altro: l’idea per cui lo sviluppo di un paese passi per grandiose frustate d’intervento pubblico: un grande evento qui, una grande opera lì. Che nessuno “sogni” di ridurre la pressione fiscale o privatizzare le aziende pubbliche è una diretta conseguenza di questa superstizione: non si tratta solo di un pregiudizio favorevole all’azione rispetto al disimpegno, ma di un’autocerficazione di poteri demiurgici.

L’immaginario di un politico – se non altro, per perdonabili ragioni egoistiche – è naturalmente diverso da quello dei suoi elettori. Mentre noi comuni mortali sogniamo di farci rimboccare le coperte da Belén, il nostro dreamer-in-chief sogna ponti di tre chilometri a una sola campata. Ma governare è un sogno o i sogni aiutano a governare?

Twitter @masstrovato