Legge elettorale e pomodoro nelle lasagne: stesso problema

scritto da il 26 Gennaio 2017

Meglio un proporzionale secco con collegio unico nazionale? O un maggioritario? Premio di maggioranza o sbarramento? Una quota in un modo una in un altro? Quanta quota? Italicum? Mattarellum? Porcellum? Consultellum? Domande legittime. L’importante sarebbe aver chiaro in base a cosa ragionare, perché se si pretende di argomentare in maniera oggettiva per arrivare ad una legge elettorale “perfetta” allora si è completamente fuori strada: non c’è niente di oggettivo.

Qualsiasi legge elettorale assume un senso solo ex post, cioè con il risultato elettorale e quindi con la conseguente composizione delle Camere del Parlamento. Sarebbe molto più onesto iniziare il ragionamento sulla legge elettorale “migliore” enunciando quale risultato si vuol ottenere (quali percentuali di seggi ai singoli partiti), riducendo quindi l’analisi “razionale” alla valutazione dell’interazione tra norme e distribuzione attesa dell’elettorato (cioè quanto la legge è adatta per ottenere quello specifico risultato agognato).

Pensare di essere razionali quando si definisce in astratto l’ottimale grado di proporzionalità/maggioritarietà di una legge elettorale è come disquisire sul perfetto rapporto pasta/condimento delle lasagne: dirlo in astratto non serve a nulla semplicemente perché ognuno ha un suo gusto personale per le lasagne. Al più ha senso se il fine è quello di evitare il diabete (cioè non far vincere specificamente qualcuno alle elezioni).

Il risultato di una legge elettorale si può esprimere come una combinazione più o meno lineare dei due caratteri “rappresentatività” e “governabilità”, in cui essenzialmente il crescere di una implica la riduzione dell’altra. La massima governabilità coincide con la minima rappresentanza: vince uno solo e con una differenza di seggi in Parlamento ben rassicurante qualsiasi sia l’effettivo vantaggio (anche minimo) in termini di voti. La massima rappresentanza implica la minima governabilità possibile: tutti i partiti sono rappresentati esattamente in proporzione ai voti presi (o addirittura anche meno che proporzionalmente se si garantissero dei minimi assoluti di rappresentatività) con il rischio di una proliferazione di partiti o di loro scissioni e comunque l’impossibilità di una unicità immediata del vincitore (che con più di tre contendenti è praticamente impossibile), costringendo a coalizioni instabili prede di ricatti e veti incrociati.

Tutto questo salvo che l’elettorato non esprima una preferenza assoluta netta, ma in tal caso non saremmo a farci troppe domande. Tra queste due condizioni estreme passano tutte le combinazioni più o meno lineari in cui quel che si cede in rappresentatività si guadagna in governabilità, e viceversa. A ognuna di queste combinazioni corrisponde una (o anche più) leggi elettorali.

Decidere quale di queste combinazioni “rappresentatività/governabilità” sia quella “giusta” non è difficile, ma nemmeno impossibile: è inutile. Il “giusto” non esiste. Come pesare in astratto l’esigenza di avere “un po’ più di governabilità” in cambio di “un po’ meno di rappresentatività”? Come si misurano queste grandezze? Al più si può valutare l’entità della governabilità in termini probabilistici legati all’eccesso di seggi in parlamento rispetto al 50%+1 (o ai 2/3+1 se andiamo oltre il processo legislativo ordinario) di un singolo partito (così togliamo il problema delle coalizioni) e verificare che tipo di “forzatura maggioritaria” debba venir operata sul voto per garantire quel risultato. Ma non siamo in grado di dare un valore oggettivo o un peso né al valore di quella stabilità né alla distorsione da operare rispetto all’estremo del sistema proporzionale secco. Diventa tutta una questione di come il singolo individuo percepisce la perdita di uno dei caratteri “rappresentatività” o “governabilità” rispetto all’altro, cioè in che termini questi per lui siano un valore e dove stiano nella propria struttura delle preferenze.

Insomma, a me piace più pasta e meno pomodoro nelle lasagne, ma questo vale per me e non ne farei un principio universale.

L’unica valutazione che si può fare è confrontare a parità di grado di governabilità – che può implicare una gamma di risultati elettorali – quale legge elettorale risulta meno invasiva rispetto all’estremo del proporzionale secco (o a parità di distorsione rispetto al sistema proporzionale, quale legge mi porti la maggiore governabilità). Ma questo significa anzitutto non poter dare un giudizio assoluto ma solo relativo, e ancora di più poterlo fare solo data la distribuzione di voto di partenza, cioè contestualizzando il problema nella contingenza politica (qui e oggi), quindi non discutere in termini generali e assoluti. Non è quindi una “discussione razionale e oggettiva” bensì un “contingente strumento politico”. Oh, nessuno dice che sia sbagliato fare battaglia politica con gli strumenti della politica, ma si eviti di ammantare la discussione di impalcature intellettuali e morali come “la democraticità del sistema” o ancora peggio “l’ottimalità assoluta”, perché questa è veramente una sciocchezza.

Se non avete capito, vi faccio un disegnino. Per semplificare vi butto lì (“lì” significa qui sotto) un grafico che misura governabilità e rappresentatività, definisco i loro rispettivi massimi sulle assi e pongo che una legge elettorale possa semplicemente generare una qualsiasi combinazione lineare convessa tra tali punti. Ve lo traduco: le leggi elettorali sono punti di una linea retta che passa tra i due estremi definiti. Questa linea è il nostro “vincolo”: possiamo scegliere solo una di queste leggi elettorali (teoricamente infinite). Questo vincolo potrà essere più o meno inclinato a seconda del contesto istituzionale (cioè quali altri accorgimenti giuridici possano rendere più o meno stabile o fragile un Parlamento o il conseguente Governo indipendentemente dal margine di seggi acquisiti e quindi rispettando più o meno la rappresentatività) o sociale (quanto il Parlamento sia prono a interiorizzare i mutevoli umori dell’elettorato).

leggelettorale

Come scegliamo quella giusta? Con una funzione di utilità che pesa insieme quanto si perde da un verso mentre si guadagna da un altro, considerando che – umanamente – man mano che si perde qualcosa da un lato (esempio: quanto più si rinuncia alla rappresentatività), lo si vuol compensato più che proporzionalmente dall’altro lato (cioè: si pretende un guadagno in termini di governabilità sempre maggiore). Quest’ultima clausola è una banale riedizione dell’universale principio di utilità marginale decrescente, e la sua conseguenza è che l’insieme dei punti “ugualmente preferibili” si trovano lungo una “curva di indifferenza” avente la forma riportata nel grafico. La curva che tange il vincolo è quella che rappresenta il livello di utilità (o preferibilità) più alto. In questo modo ognuno – ogni singola testa pensante – trova la propria combinazione ottima di rappresentatività/governabilità e quindi la legge elettorale più confacente. Una soluzione per ogni testa, non una soluzione univoca per tutti.

Trovatemi una ragione per cui la minor sensibilità di Leonardo verso la rappresentatività sia “più giusta” della minor propensione di Giuseppe verso la governabilità. Sostenere una qualunque legge elettorale implica uno specifico individuale schema di preferenze sulla combinazione delle caratteristiche del risultato finale, e quindi risente delle aspettative concrete di voto e composizione finale dell’organo da eleggere. La maggior governabilità preferita da Leonardo potrebbe infatti derivare dalla vittoria (con premio) di un partito specifico che invece, con la soluzione di Giuseppe, potrebbe venir messo in minoranza da una coalizione dei suoi primi due o tre concorrenti (risultato più rappresentativo del voto ma meno stabile). Lo schema di preferenze individuali quindi può ben dipendere da un preconcetto, da una “distorsione” basata su ragioni pratiche alla faccia dell’analisi puramente razionale e di principio. Anzi: parlando di legge elettorale sarebbe strano il contrario! Ammettiamolo, e smettiamo di fingere di essere oggettivi.

I bias sono normali, non c’è nulla di strano, dobbiamo accettarli… o meglio basta ammetterli e non parlare fingendo di esserne immuni ammantandosi di razionalità. Insomma, a me meno pomodoro, ma se invece delle lasagne ci sono le penne stiamo sbagliando la discussione da fare.

Twitter @LBaggiani