Politiche agricole, la lezione semplice e tosta delle Corn Laws sugli errori dell’Ue

scritto da il 09 Giugno 2017

Nel maggio del lontano 1846, il parlamento del Regno Unito votò a favore dell’abolizione unilaterale di tutti i dazi relativi all’importazione delle derrate agricole, le cosiddette Corn Laws.

Come scrive Cheryl Schonhardt-Bailey, professoressa di scienze politiche presso la London School of Economics ed autrice del libro “Dalle leggi sul grano al libero mercato”, la battaglia contro le Corn Laws fu dettata – in primis – dalla volontà degli imprenditori e dei lavoratori britannici di ridurre il prezzo del pane. Infatti, oltre ad essere un importante strumento di potere per l’aristocrazia terriera, le Corn Laws mantenevano il prezzo dei generi alimentari artificialmente alto, disincentivavano l’innovazione e bloccavano l’importazione di maggiori quantità di cereali esteri dalle colonie. Di conseguenza, questi dazi erano a tutti gli effetti delle imposte protezioniste, regressive ed anti-concorrenziali.

L’abolizione delle Corn Laws portò a molti benefici ed il periodo immediatamente successivo alla loro eliminazione fu descritto dal Barone di Ernle come “l’età aurea dell’agricoltura britannica”. Nel corso del seguente ventennio la qualità dei raccolti migliorò notevolmente mentre l’espansione della superficie coltivata, l’aumento dei salari ed i maggiori investimenti in drenaggio, infrastrutture e macchinari permisero una più rapida transizione verso l’industria ed il settore dei servizi.

Come riportano le serie storiche dell’ONS, l’Ufficio di Statistica Nazionale, e della Banca Centrale Inglese, la liberalizzazione del settore agricolo ebbe ripercussioni molto positive sull’intera economia del Regno Unito. Non è un caso che tra il 1851 ed il 1871 la percentuale di coloro che lavoravano nei campi calò rapidamente dal 22% al 16%, favorendo un più rapido processo di trasformazione strutturale.
Al tempo stesso, tra il 1846 ed il 1873 la produttività del lavoro aumentò in media dell’1.91% annuo (rispetto all’1.08% che si registrò tra il 1815, anno dell’introduzione dei dazi su grano, ed il 1845) mentre il prodotto interno lordo reale pro capite aumentò da 2.914 sterline a 3.919.

A tutto questo va poi aggiunto un aumento sostanziale dell’ import e dell’ export che, in termini nominali, triplicarono e quadruplicarono, rispettivamente. Stando al database di Sciences Po, RICardo, gli export passarono da 63 milioni di sterline nel 1849 a 225 milioni nel 1873. gli import, invece, aumentarono da 105 milioni di sterline nel 1849 a 371 milioni nel 1873.

Seppur temporalmente molto distante dai giorni nostri, l’abolizione delle Corn Laws ci permette di comprendere una lezione economica semplice, ma di fondamentale importanza: solo una completa liberalizzazione del settore agricolo può permettere ai nostri agricoltori di diventare, con il tempo, più produttivi, più innovativi e più competitivi a livello globale. Inoltre, contrariamente a quanto ci viene spesso raccontato dai politici nostrani (basti pensare alla scandalosa campagna mediatica contro l’importazione dell’olio tunisino senza dazi), una totale liberalizzazione del settore agricolo ci permetterebbe seriamente di “aiutare molti paesi in via di sviluppo, a casa loro”.

Come è infatti giusto ricordare, la politica europea di maggiore importanza (anche, indirettamente, per il suo impatto internazionale) risulta essere la cosiddetta “politica agricola comune” (PAC). La PAC regola l’intero settore agricolo dell’Unione e , come scrive Sean Rickard, ex capo economista dell’ “unione degli agricoltori nazionali”, un importante sindacato britannico, risulta essere il programma comunitario più costoso, intrusivo e complesso finanziato dai cittadini europei. Ad oggi, circa il 40% del budget annuale dell’Unione viene destinato all’agricoltura.

Grafico 1: Totale spesa a sostegno della politica agricola comune tra il 1980 ed il 2016 – Dati Commissione Europea Marzo 2017 (Nota bene: le barre in blu equivalgono al totale della miliardi spesi per le politiche agricole; la linea rossa corrisponde invece al rapporto rispetto al totale del budget europeo).

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Introdotta ufficialmente per la prima volta nel 1962, la politica agricola comune risulta essere da sempre un programma fortemente distorsivo. Nonostante le varie trasformazioni che l’hanno contraddistinta negli ultimi 25 anni, a partire dalla significativa riforma MacSharry del 1992, la PAC non solo continua a mantenere i prezzi dei beni alimentari al di sopra di quelli del mercato globale (creando così problemi sia ai consumatori che ai produttori europei), ma continua anche a danneggiare molti paesi in via di sviluppo (nazioni che in molti casi devono portare ancora a termine il processo interno di “cambiamento strutturale”).

Come riporta un numero crescente di specialisti del settore, la PAC sta danneggiando la produttività dell’intero settore agricolo europeo. Le recenti riforme della PAC non hanno fatto altro che rallentare la produttività agricola, scoraggiando un utilizzo più efficace delle risorse a disposizione, promuovendo lo sviluppo di coltivazioni solo marginalmente redditizie e bloccando lo sviluppo di molte tecnologie alternative come , ad esempio , gli organismi geneticamente modificati . Come viene evidenziato dalla Commissione Europea, tra il 1995 ed il 2015, la “Total Factor Productivity” del settore agricolo europeo , è stata pari a circa lo 0,9% annuo. Al contrario secondo la Farm Europe, un think-tank che si occupa principalmente di analizzare l’efficacia della politica agricola europea, la produttività totale del settore agricolo, negli ultimi 10 anni è stata pari allo 0,8% annuo, ben al di sotto delle performance fatte registrare dal settore agricolo canadese (1.3% annuo) statunitense (1.7%), australiano e neo-zelandese (2.1%).

 Grafico 2: “Total Factor Productivity” settore agricolo europeo – Report della Commissione Europea del Dicembre 2016 (Nota bene: nell’articolo stiamo parlando principalmente della riga nera che trovate nel grafico, riga che descrive l’andamento della produttività del settore agricolo in tutti i 28 paesi dell’Unione Europea).

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Oltre ad aver portato ad una progressiva riduzione della produttività, la politica agricola europea ha ridotto il livello di innovazione ed ha permesso ai nostri produttori agricoli di evitare la competizione internazionale. A tutto questo va poi aggiunto il fatto che, come sostengono sia Calestous Juma, professore di sviluppo internazionale presso l’università di Harvard, sia Kirsten Urban, professoressa di commercio agricolo internazionale presso l’università di Hohenheim, il sostegno diretto agli agricoltori, le tariffe ed i dazi sulle importazioni continuino a danneggiare fortemente i paesi in via di sviluppo e che di conseguenza dovrebbero essere aboliti (o quanto meno drasticamente ridotti). Per fare un esempio, l’Unione Europea continua ad imporre tariffe sul caffè torrefatto pari al 7,5% o dazi del 30% su barre di cioccolato e polvere di cacao. Inutile ricordare come i principali produttori mondiali di caffè e/o cacao siano i paesi sud americani, africani e del sud-est asiatico.

Tutte queste misure protezioniste vanno contro i principi cardine della politica europea di cooperazione allo sviluppo, un programma comunitario che dovrebbe – per l’appunto – favorire la crescita economica dei paesi “poveri”. Inoltre, la totale riluttanza dell’Unione Europea ad abolire i pagamenti di sostegno diretto agli agricoltori e a ridurre i dazi sulle importazioni estere sono tra le principali cause dello stallo dei negoziati di Doha, trattative promosse dall’Organizzazione Mondiale del Commercio a fine 2001 e non ancora portate a termine.

Come ricorda Heinz Strubenhoff, economista presso il Gruppo della Banca Mondiale, ci sono voluti più di 20 anni affinché l’Unione Europea decidesse di abolire ufficialmente l’orrenda pratica dei sussidi alle esportazioni agricole. Queste ultime sono state infatti abolite solo a fine 2015, a seguito dell’accordo di Nairobi.

Adesso, tutti coloro che hanno a cuore la riduzione della povertà e lo sviluppo di un commercio più equo devono solo sperare che l’Unione Europea non ci impieghi altri 20 anni a capire che il sostegno diretto agli agricoltori, i dazi sulle importazioni e l’intera politica agricola comune danneggiano sia i paesi in via di sviluppo, sia i consumatori europei, sia i produttori nostrani. Al momento, il Consiglio dell’Unione (costituito dai governi degli Stati Membri), le Commissione Europea ed il Parlamento Europeo sembrano però, purtroppo, continuare a pensarla in modo diverso. L’approvazione del “Nuovo Consenso Europeo per lo Sviluppo Internazionale” ne è infatti semplicemente l’ennesima conferma.

Twitter @cac_giovanni