Tre opzioni per portare Brexit fuori dal guado

scritto da il 21 Ottobre 2017

Proseguono i negoziati tra Unione europea e Regno Unito avviati in seguito alla notifica effettuata da quest’ultimo lo scorso marzo al Consiglio europeo dell’intenzione di recedere dall’UE, in linea con la volontà emersa nel referendum del 2016 sulla Brexit. Decisione di portata storica a cui ha fatto seguito una fase di incertezza acuita da una corsa contro il tempo poiché, a norma dell’art. 50 del Trattato sull’Unione Europea, le parti sono vincolate a raggiungere un accordo sui termini della separazione entro due anni. Obiettivo difficile dal momento che anche l’ultimo Consiglio europeo, facendo seguito a una risoluzione del Parlamento europeo del 28 settembre e alla luce dei cinque infruttuosi round negoziali tenuti finora, ha certificato il mancato compimento di passi sufficienti ai fini dell’accordo sulla separazione, alimentando l’incertezza circa la possibilità di rispettare il termine del 29 marzo 2019.

D’altronde uscire dall’Unione europea ha diverse implicazioni. Innanzitutto, vuol dire uscire dall’Unione doganale basata sull’eliminazione di dazi e barriere tra stati membri nonché sulla fissazione di una tariffa esterna comune valida per gli scambi con il resto del mondo e immodificabile dai singoli stati membri grazie all’attribuzione in capo all’Unione di prerogative esclusive in materia politica commerciale, al fine di impedire gli effetti distorsivi che si avrebbero qualora ciascun stato membro potesse liberamente fissare una propria tariffa negli scambi con i Paesi extra-UE. La tariffa esterna comune, che realizza la singola frontiera europea, costituisce inoltre il prerequisito essenziale per l’esistenza del mercato unico.

Quest’ultimo, con le sue quattro libertà di circolazione di merci, servizi, capitali e persone, rappresenta il punto più avanzato del processo di integrazione europea ed è l’emblema dell’Unione. Il mercato unico, tra l’altro, ha sancito il principio di libertà di stabilimento per le imprese e ha consentito di abbattere i costi per l’adeguamento di beni e servizi agli standard tecnici mediante l’armonizzazione di norme e la previsione di requisiti minimi comuni validi in tutto il territorio unionale. Oltre che per le imprese, ciò ha avuto ricadute positive anche per i consumatori alle quali si aggiunge la prospettiva di una ulteriore integrazione nei mercati nati nell’era digitale e nel settore finanziario. È dunque naturale che, all’indomani del referendum, si sia aperta una fase di incertezza che potrà essere dipanata in base all’andamento dei negoziati.

Riguardo a questi ultimi, è possibile distinguere due fasi. La prima riguarda il saldo delle spettanze, ovvero la garanzia che la Gran Bretagna onori gli impegni finanziari presi prima di notificare la volontà di uscire dall’Unione. Sul punto, e alla luce della possibilità che intervenga una posticipazione dell’uscita britannica dall’UE, è bene precisare che fintantoché la Gran Bretagna non sarà fuori dall’Unione soggiacerà ai vincoli normativi, finanziari e giurisdizionali dell’Unione, ivi comprese le prerogative della Corte di Giustizia dell’UE.

Oltre alle questioni finanziarie, dovranno essere risolte anche quelle relative alla libertà di movimento e di lavoro dei cittadini UE in Gran Bretagna e viceversa. Nello specifico, le restrizioni ai cittadini UE potrebbero limitarsi ai benefici del welfare britannico, dal momento che la Gran Bretagna quando uscirà dall’Unione avrà comunque interesse ad assicurarsi manodopera qualificata in settori che vanno dal mondo accademico alla ricerca, dalla sanità al settore finanziario, oltre che manodopera in settori come l’agricoltura, l’edilizia, il turismo.

Detto questo, è materia di divisione l’intendimento dell’Unione di garantire che quanto stabilito nell’accordo di separazione sia immodificabile unilateralmente, sovraordinato alla legge britannica e che la Corte di Giustizia dell’UE resti l’autorità preposta alla sua interpretazione e applicazione. Un ulteriore punto oggetto di negoziato è la regolamentazione dei rapporti tra Irlanda e Irlanda del Nord. Qui l’obiettivo è preservare il Good Friday Agreement del 1998 ed evitare il ritorno a una frontiera fisica.

Allorché saranno stati effettuati sufficienti progressi nelle trattative riguardanti la prima fase, potrà aprirsi la seconda relativa ai futuri rapporti tra Gran Bretagna e Unione europea. In questo senso, è possibile individuare alcuni modelli di Brexit che potrebbero scaturire dai negoziati, sintetizzati nella tabella qui sotto. Attualmente, le soluzioni di compromesso più verosimili sono riconducibili ai modelli norvegese, svizzero o canadese.

Tabella n. 1

Membro UE Norvegia Svizzera Canada Turchia Membro WTO
Appartenenza al mercato unico In parte No No      No
Dazi e tariffe No No No Ridotte in virtù dell’accordo CETA Non sui prodotti industriali      Sì
Libera circolazione No No      No
Unione doganale No No No      No
Finanziamento del budget UE Sì, in misura contenuta No No      No

Fonte: BBC

Il modello norvegese – Paese che aderisce sia all’Area economica europea (EEA) sia all’Associazione europea per il libero scambio (EFTA) – è quello più integrato con l’UE, poiché permette di accedere al mercato unico e di cooperare in altri settori pur essendo la Norvegia fuori dall’Unione. Questa particolare forma di integrazione è tuttavia legata all’obbligo da parte norvegese di contribuire finanziariamente al bilancio dell’Unione, di rispettare la legislazione UE in materia di mercato unico, senza poter incidere sulla stessa, e di osservare il principio di libera circolazione.

Il modello svizzero – Paese che aderisce soltanto all’EFTA – replica per molti aspetti quello norvegese, ma con un minor accesso al mercato unico cui si accompagna un impegno al finanziamento del budget dell’Unione più contenuto.

Il modello canadese, invece, si basa su un accordo di libero scambio (CETA) che riduce ma non elimina del tutto dazi e tariffe sugli scambi né permette al Canada l’accesso al mercato unico. D’altra parte, con questo tipo di accordo il Canada non finanzia il bilancio dell’Unione né recepisce il principio di libera circolazione.

Le trattative tra Unione europea e Gran Bretagna potrebbero dunque dirigersi verso una di queste soluzioni. Qualora invece non si raggiungesse un accordo, i rapporti sarebbero retti dalle norme dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), con il ritorno quindi di dazi e tariffe negli scambi tra le parti, senza alcun accesso preferenziale della Gran Bretagna al mercato unico né forme di cooperazione in settori non strettamente economici.

Naturalmente, per misurare in maniera compiuta gli effetti economici della Brexit, bisognerà attendere l’uscita del Paese dall’Unione e verificare le effettive restrizioni al commercio. Ciononostante appare utile ricordare che circa il 44% delle esportazioni del Regno Unito sono destinate a Paesi UE, mentre circa il 18% delle esportazioni dei Paesi UE sono destinate in Gran Bretagna. Andando più nel dettaglio, risulta che nel 2016 il 49,3% degli scambi commerciali del Regno Unito è stato effettuato con Paesi UE. La maggioranza di questi stati, Germania in testa, vanta inoltre un saldo positivo della bilancia commerciale con il Regno Unito che però acquista dagli altri stati membri beni più elastici, ovvero più facilmente sostituibili.

Di una certa importanza appaiono anche gli investimenti britannici nell’UE. In Italia, ad esempio, superano i quattordici miliardi di sterline. Per limitare i danni alle reciproche industrie, dati i profondi legami commerciali già messi alla prova dall’uscita senza precedenti di uno stato membro dal mercato unico, sarebbe opportuno evitare di tracimare verso soluzioni che prevedano il ritorno all’applicazione di dazi negli scambi quando il Regno Unito sarà fuori dall’Unione doganale, particolarmente elevati nel comparto agroalimentare, in quello tessile e nell’industria automobilistica.

Sul punto, però, ci si trova ancora nel campo delle ipotesi. Delle tante incertezze, tuttavia, è possibile accantonare perlomeno quella che prevedeva effetti economici nefasti a causa della Brexit. Infatti, a distanza di oltre un anno dal voto i parametri economici fondamentali del Regno Unito non hanno evidenziato particolari scossoni. Il Paese può contare su una certa solidità strutturale fotografata anche da una crescita moderata del PIL, peraltro simile a quella dei più importanti Paesi europei, nonché dai dati sull’occupazione e sul debito pubblico.

D’altra parte la constatazione che l’economia del Regno Unito abbia nel complesso tenuto non vuol dire che l’esito del referendum sia stato senza conseguenze. Al contrario, il “semplice” annuncio dell’uscita del Regno Unito dall’UE – a causa del ruolo svolto dalle aspettative – ha colpito immediatamente il Paese mediante il crollo della sterlina, che dal voto referendario ha registrato una pesante svalutazione nel rapporto con l’euro – pur senza scendere sotto il minimo storico – incidendo su inflazione, salari reali e sul saldo commerciale della bilancia dei pagamenti. Inoltre, collegato all’esito del referendum vi è anche la decisione di alcuni istituti finanziari di abbandonare la Gran Bretagna quale snodo cruciale dei propri affari, che sottrarrà al Paese una fetta di capitale umano ad alta specializzazione con ricadute negative anche a livello di indotto. Sottrazione che peraltro riguarderà pure le Authority europee con sede a Londra (l’Agenzia europea per i farmaci e l’Agenzia bancaria europea) che dovranno trovare una sistemazione fuori dal Regno Unito a centinaia di funzionari europei.

A livello politico, infine, giova ricordare che l’uscita dall’UE comporterà per la Gran Bretagna la perdita dello status di membro speciale dell’’UE che permetteva l’adesione al mercato unico restando fuori dall’euro, dall’unione bancaria e dall’area Schengen, nonché una perdita secca di influenza nei processi riguardanti l’Unione europea. Conseguenza diretta della separazione dall’UE, infatti, saranno l’uscita del Paese dal Consiglio europeo, l’impossibilità di nominare personalità di nazionalità britannica nelle istituzioni e negli organi dell’Unione e la perdita dei settantatré seggi ad esso riservati nel Parlamento europeo.

A ben vedere, nel lungo periodo saranno queste le conseguenze più importanti della Brexit.

Twitter @andreafesta_af

*Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non impegnano l’Amministrazione di appartenenza.