Contro il nazionalismo calcistico (ovvero, sull’uso politico dello sport)

scritto da il 09 Luglio 2018

Non appena Maria Benedicta Chigbolu, Ayomide Folorunso, Raphaela Lukudo e Libania Grenot hanno conquistato l’oro nella 4×400 ai Giochi del Mediterraneo di Tarragona, 1500 km più in là, nelle stanze romane, è cominciata una nuova corsa: quella ad appropriarsi del loro successo. Ai blocchi di partenza, Renzi («vince l’Italia che non ha paura», hashtag #PrimeLeItaliane), Salvini («a prescindere dal colore della pelle, contribuiscono a far crescere il nostro Paese»), la Meloni («vedo sventolare la bandiera tricolore» – e posta l’unica foto in cui il vessillo non entra neanche di striscio) e l’immancabile Saviano, in diretta dal campo neutro di Manhattan («l’Italia multiculturale nata dal sogno repubblicano non verrà fermata»). Inconciliabili idee di paese, come si vede, accomunate dall’identica convinzione che la vittoria del quartetto appartenga al Paese.

L’uso politico dello sport è vecchio quanto lo sport, ma raramente replica l’intensità con cui si manifesta in occasione del Campionato del mondo di calcio. In queste settimane, ne abbiamo ricevute diverse dimostrazioni puntuali: gli svizzeri di origine kosovara Granit Xhaka e Xherdan Shaqiri, per esempio, hanno celebrato le marcature con cui hanno purgato la Serbia mimando l’aquila bicipite che campeggia sullo stendardo albanese (gesto, peraltro, sanzionato dalla Fifa con un’ammenda); mentre il francese Kylian Mbappé – oltreché per la prestazione devastante con cui, a neppure vent’anni, ha estromesso l’Argentina dalla competizione – ha fatto notizia per la decisione di devolvere in beneficenza i proprî gettoni di presenza, ritenendo, pare, che un atleta non debba essere remunerato per rappresentare il proprio paese; per non dire del colossale sforzo di legittimazione interna ed esterna che il regime putinista sta mettendo a segno, complici il placido andamento del torneo e l’inattesa efficacia della selezione di casa.

Al di là delle operazioni di propaganda più o meno consapevole, è la natura stessa delle manifestazioni per squadre nazionali a propiziare l’esasperazione di riflessi tribalistici. È questo il loro profilo paradossale: nel nome dell’universalità, alimentano (sia pure indirettamente) divisioni profondamente radicate nella psicologia politica, al contrario delle competizioni per club, che – certo meno inclusive in linea di principio – mettono il gioco al centro, titillando rivalità assai più superficiali. Le recenti iniziative del governo del calcio vanno nella direzione di un ruolo ancor maggiore per le nazionali: la Fifa, che pure lancerà nel 2021 un Mondiale per club rinnovato, ha sancito d’innalzare il numero delle selezioni ammesse al Mondiale a 48, a partire dall’edizione del 2026; mentre la Uefa inaugurerà nel prossimo mese di settembre la Nations League, un torneo biennale destinato a soppiantare quasi interamente il calendario delle amichevoli.

Questa rinnovata attenzione per le nazionali è doppiamente inopportuna. Da un lato, se è vero che il mondo dello sport ha tradizionalmente affrontato il tema con una certa flessibilità (la squadra azzurra che vinse il Mondiale nel ’34 e nel ’38 era infarcita di oriundi e di naturalizzati), oggi la relazione con questo o quel paese sempre più prescinde (e prescinderà) dai vincoli di sangue e terra: sicché, se la nazionalità degrada da già labile accidente storico a mera convenzione burocratica, è ancor più opinabile che essa debba rivestire un ruolo tanto preminente nella definizione dell’identità individuale. Per altro verso, però, a dispetto dello scoloramento della nozione di nazionalità, attraversiamo una fase storica in cui la retorica nazionalistica ha ripreso repentinamente vigore nella propria declinazione sovranistica.

Il calcio non provoca, naturalmente, questa tendenza, ma l’asseconda: in occasione dei Mondiali la febbre del pallone finisce per contagiare anche i calcisticamente agnostici, inducendoli a supportare la rappresentativa di riferimento e contribuendo a rendere socialmente accettabile, se non socialmente doverosa, l’espressione di un’orgogliosa partecipazione ai destini della nazione e della nazionale. Se il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie, lo stadio è dunque l’ultimo rifugio dei patrioti. In tempi di “America first” e “prima gli italiani”, il tifo sciovinistico è una ricetta che non ci possiamo permettere. E a chi ritiene che sia ingeneroso gettare il bambino dell’amor di patria con l’acqua sporca del nazionalismo è tragicamente agevole ricordare che – fuor di metafora – nell’acqua sporca del nazionalismo i bambini continuano ad affogare.

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