Innovazione, l’Italia non è un Paese per giovani e donne

scritto da il 23 Settembre 2019

Tempo fa su Econopoly avevamo scritto circa l’opportunità di prevedere un ‘Ministro dell’ Innovazione’, come avviene spesso nei paesi anglosassoni [1]. Chissà, forse quel pezzo è stato letto ed apprezzato dalla squadra del Primo Ministro. Fatto sta che la nuova compagine governativa prevede questa figura, individuata in Paola Pisano, ministra per l’Innovazione. Una figura tecnica, professoressa di Disruptive Innovation, che ha lavorato come assessore al digitale per il comune di Torino.

Chissà, forse ora il Governo vorrà introdurre nell’articolazione organizzativa dei suoi uffici anche un “Chief Innovation Officer”? Come avviene per alcune amministrazione pubbliche negli Stati Uniti?[2] Non lo sappiamo. Nel frattempo all’Università di Pavia abbiamo provato a fare il punto su questo tipo di C-Level. Siamo partiti da un database con 20.076 figure dirigenziali e dopo accurata scrematura siamo giunti ad un campione di 400 Chief Innovation Officer [3].

Anzitutto, cosa si intende con il termine “Chief Innovation Officer” (CInO)? Trattasi di un C-level, ossia una figura manageriale al top della gerarchia aziendale, che lavora a stretto contatto con il CEO. Da quest’ultimo riceve delega in una specifica area di competenza, la quale nel caso in oggetto è – semplificando – il potenziamento della capacità innovativa aziendale.

Talvolta vi è una spiccata affinità con temi di sviluppo tecnologico e/o di trasformazione digitale. È il caso dei “Chief Innovation and Technology Officer” o del “Chief Digital & Innovation Officer”, per quanto questo orientamento ponga dei rischi di cui parlerò più avanti. Fra le ulteriori varianti che abbiamo mappato, interessante è il “Chief Transformation Officer”. Oppure il “Chief Innovability Officer”, come si è fatto in ENEL – con il top manager Ernesto Ciorra – dove l’obiettivo è rimarcare una mission che coniuga innovazione e sostenibilità ambientale[4].

Date queste premesse, segue una sintesi circa i principali risultati emersi e l’opinione di un panel di C-levels.

 

I risultati dello studio di Università di Pavia: un ruolo in divenire

Anzitutto, emerge che il CInO è ancora una figura ancora relativamente poco diffusa. Solo il 2,2% fra tutti i C-Level del campione, ben al di sotto rispetto a figure come il Chief Sales Officer (18,2%), il Chief Marketing officer (16,6%) o il Chief Financial Officer (14.3%).

Il CInO è molto diffuso anche nelle imprese di servizi (vedi figura 1). A sottolineare che non solo le imprese tecnologiche e/o science-based (es. aziende farmaceutiche e micro-elettronica) ne hanno bisogno. Tant’è che il comparto dove il CInO sta ora riscuotendo maggior polarità è proprio quello dei servizi finanziari. In particolare, le grandi banche avvertono il bisogno di creare ‘shock’ organizzativi per stimolare il cambiamento, rispondere all’attacco delle fin-tech e concepire il digitale come opportunità anziché minaccia.

Fra gli altri settori dove il CInO è più diffuso – se non stupisce vedere il comparto farmaceutico e le telecomunicazioni – è molto interessante trovare il Food & Beverage e il Retail. In sintesi, il CInO prospera “agli estremi”: nei settori con tradizione innovativa e in quelli che si sentono più minacciati dai cambiamenti in atto.

Fig. 1. Distribuzione delle aziende con un CInO nel nostro campione: i 10 principali settorislide1Fonte: Università degli Studi di Pavia, 2019.

La figura 2 entra nel merito del profilo tipo del CInO, a partire dall’età media. Chi si sarebbe atteso una figura ben più giovane rispetto ad altri C-Level resterà deluso. L’età media di un CInO è 53 anni e 1 mese, pressoché la stessa rispetto agli altri C-Level del campione (53 anni e 10).

L’analisi per fasce d’età rileva invece una realtà più sfaccettata. I CInO con meno di 45 anni sono il 15,2%, poco più che nel caso di altri C-Level (13,5%). Sono quindi più giovani? Non esattamente. I CInO con più di 60 anni sono il 25,0%, contro il 20,4% nel caso di altri C-Level. In altre parole, poche vie di mezzo: o si punta su un giovane, oppure su una figura con grande esperienza (talvolta prossima alla pensione…).

Poiché quest’ultimo è il caso più frequente, diventa interessante interrogarsi sul perché. I maliziosi potrebbero ritenere che, quale figura relativamente nuova e ‘alla moda’, finisca con l’essere spesso un ruolo più che altro d’immagine. Così lì si posizionano manager con buona reputazione, ma ormai a fine carriera.

Chi scrive è convinto che le ragioni siano (anche) altre. Il CInO si occupa di attività che non possono venire isolate in un dipartimento stand-alone. Deve costantemente confrontarsi con altri parigrado. Diventa cruciale avere autorevolezza, nonché rapporti interpersonali sviluppati negli anni con le altre figure apicali. Il giovane creativo amante delle Hackathon è perfetto in squadra, ma rischia di essere sbranato quando va a spiegare al Direttore Commerciale come dovrebbe fare il suo lavoro.

Detto questo, l’auspicio di chi scrive è vedere sempre più imprese con il coraggio di mettere l’innovazione in mano a figure relativamente più giovani. Specie in Italia, dove l’età media del CInO è significativamente più alta che in altri Paesi. Addirittura negli Stati Uniti i CInO con meno di 45 anni (23,5%) sono quasi il doppio rispetto a quanto accade nel Bel Paese (12,5%). Ahimè l’Italia non è un paese per giovani, neanche in fatto di innovazione.

C’è molto da lavorare anche per quanto concerne la diversità di genere (vedi figura 3). Un tocco di creatività ed empatia femminile farebbero comodo ai nostri processi di innovazione. Purtroppo in Italia solo il 6.8% dei CInO è donna, contro il 25,2% della media europea e addirittura il 34,2% negli Stati Uniti.

Fig. 2. Il profilo tipo del Chief Innovation Officer: classi d’età ed aree geografiche.slide1Fonte: Università degli Studi di Pavia, 2019.

Fig. 3. Il profilo tipo del Chief Innovation Officer: diversità di genere ed aree geografiche.slide1Fonte: Università degli Studi di Pavia, 2019.

Il risultato più interessante è però probabilmente il seguente. Abbiamo provato a suddividere il campione in due gruppi. Le imprese che si sono dotate di un CInO (in verde in figura 3), rispetto a quelle che in organigramma non prevedono tale ruolo (colore rosso). Tanto a livello italiano quanto a livello internazionale, emerge che nel periodo 2016-2018 le imprese dove opera un CInO sono cresciute del 12,4%, contro il 7,7% delle realtà che ne sono sprovviste. Una differenza davvero marcata, che si accentua nelle imprese manifatturiere. Chi si occupa di ricerca scientifica sa che servono analisi più sofisticate per concludere che basti introdurre un CInO per crescere di più. La realtà è più complessa e questi risultati preliminari vanno approfonditi. Resta il fatto che una differenza di performance così netta fa riflettere.

Fig. 3. Crescita di fatturato media nel periodo 2016-2018: differenza fra imprese con e senza un Chief Innovation Officer.slide1Fonte: Università degli Studi di Pavia, 2019.

 

Il parere del panel di esperti: Risorse, Open Innovation e Cultura

Tali dati sono stati commentati da un panel di esperti e C-Level nel corso della presentazione della nuova edizione di Executive MBA Ticinensis (Università di Pavia) presso ACIN lo scorso 13 settembre, quale programma formativo progettato anche alla luce di tali risultati.

Anzitutto tutti si sono trovati d’accordo sul fatto che limitare l’azione a questioni tecnologiche e/o di trasformazione digitale sia un errore tanto grave quanto frequente. Il CInO è qualcosa di ben diverso da un Chief Technology Officer, o da Chief Digital Officer, o – pure peggio – da un Chief Information Officer (CIO). L’innovazione deve abbracciare uno spettro di azioni e funzioni più ampio. È una questione di vision strategica verso bisogni emergenti, di modelli di business rivoluzionari, un ponte in delicato equilibrio fra tecnologia e business.

In secondo luogo Federica Palermini – fino a non molto tempo fa CInO di Carrefour – ha ricordato che una figura del genere non può prescindere dall’attribuzione di adeguate risorse, umane e finanziare. Diversamente, è solo una operazione d’immagine, in genere controproducente. Si tratta purtroppo di una circostanza non rara, che spesso porta a risultati insoddisfacenti e a fare un passo indietro cancellando dall’organigramma tale ruolo.

Un Chief Innovation Officer di successo è poi quello che fa leva sull’Open Innovation. Ne è convinta Elisa Gretter, Digital Innovation Portfolio Manager in Moleskine. Essa ha rimarcato come grazie a questa strategia basata sull’apertura alle realtà innovative esterne l’azienda possa accelerare il time to market permettendo anche che nuove tecnologie e conoscenze entrino in possesso dell’azienda.

In generale, altri presenti al panel hanno sottolineato il ruolo del CInO nel superare il concetto di innovazione quale mero segreto da proteggere, stimolando invece contaminazioni fra grande impresa e startup.

Il fine è quello di creare una rete dinamica di innovatori, fuori ma anche dentro l’azienda. Illuminate il quadro descritto da Agostino Santoni, CEO della branch italiana di Cisco, una delle realtà più innovative al mondo: “Negli ultimi anni avremo acquisito oltre 200 imprese. Ora è come avessimo 80 CEO in azienda, che interagiscono e generano trasformazioni per i nostri clienti e dentro la nostra stessa organizzazione”. Così facendo, l’Open innovation è  più che accedere a know-how di terzi: diventa acceleratore esterno di processi interni di cambiamento, diversamente troppo lenti.

Infine, tutti d’accordo sul fatto che la vera sfida sia culturale: instillare in tutti i dipendenti orientamento all’innovazione e senso di responsabilità verso questi temi. Un po’ come fossero tutti CInO. Afferma Andrea Santagata, Chief Innovation Officer di Mondadori: Si cerca sempre il fenomeno, il supereroe in grado da solo di trasformare l’azienda in una macchina innovativa perfetta. Ma non può essere così: è una sfida da vincere tutti insieme”.

Quindi il CInO è inutile? “No, tutt’altro”, continua Santagata: “nei fatti serve eccome. Purché si concepisca come una sorta di consulente esterno – assieme alla sua struttura – che aiuta le altre funzioni a generare innovazione e portarla al successo”.

Sulla stessa linea di pensiero Elvio Sonnino, Chief Operating Officer di UBI Banca: “Il CInO non deve essere concepito quale fonte di innovazione, non solo. Deve piuttosto porsi quale abilitatore per la trasformazione di altri, profondamente integrato nelle linee di business, capace di farsi seguire da queste ultime”.

Così che – quale sintesi finale – la vera caratteristica vincente per un CInO è stata distillata da Raffella Temporiti, Human Resources Director di Accenture: “Per un CInO avere una visione innovativa è qualcosa di normale, una condizione necessaria ma non sufficiente. La differenza la si fa con la capacità di saperla trasmettere. Un conto è avere una vision innovativa, un altro è allineare un’intera organizzazione rispetto ad essa”.

 

In conclusione: Chief Innovation Officer ed “effetto contagio”

Un’agenda moderna di politica industriale, che pone l’innovazione fra i pilastri di sviluppo, non può ignorare le considerazioni sopra riportate. Ad esempio, affinando il programma sugli ‘Innovation Manager’: ambizioso e intrigante, ma forse ancora un poco acerbo e generico nella sua declinazione, specie con riferimento a caratteristiche di queste figure e ruolo che devono giocare. Dopo averci già ascoltato nell’accorata richiesta di un Ministro dell’Innovazione, chissà che il nostro Governo non sia qui sintonizzato pure stavolta.

Nel frattempo, speriamo che le imprese italiane decidano di trarre spunto da questi dati e riflessioni. Per dotarsi sempre di più – se non di un Chief Innovation Officer – di un modello di innovazione dotato di risorse adeguate, aperto, pervasivo lungo tutte le diverse funzioni e anime aziendali – non solo digitale – , capace di contagiare tutti i dipendenti d’un sano spirito rivoluzionario.

Twitter @sdenicolai

NOTE

[1] Si veda: https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2018/08/30/governo-del-cambiamento-innovazione/

[2] Fra i casi più interessanti, si cita lo Stato del New Jersey e la città di San Francisco, quali esempi di successo che hanno introdotto un Chief Innovation Officer (CInO) fra i dirigenti di un’amministrazione pubblica. Da ricordare anche il Presidente Barack Obama, il primo ad introdurre Chief Technology Officer (CTO) nella struttura dirigenziale di Washington. Una figura differente, ma che presenta punti di contatto rilevanti con il CInO.

[3] La fonte dati è Banca dati è Orbis (Bureau van Dijk, Moody’s Analytics). Si è partiti da una estrazione di tutte le cariche manageriali/dirigenziali presenti nel DB su scala mondiale (tutte le imprese attive con oltre 250 dipendenti). Dopo una prima fase di Data Cleaning, abbiamo ottenuto un database di ben 1,351,328 figure manageriali, considerando un focus su Europa, Nord America e Asia. Da questa base dati sono stati estratti tutti i C-Level – ad esclusione dei CEO (figura apicale) – alla ricerca di “Chief Innovation Officer”(tenuto conto di etichette di fatto allo stesso ruolo aziendale, come ad esempio “Head of Innovation”) e altri C-Level per analisi comparative . Questo passaggio – unitamente ad una ulteriore fase di Data Cleaning – ha ristretto il campione a 20,076 figure. Fra queste ultime, sono stati individuati 47 “Chief Innovation Officer” italiani. Il campione è stato completato con CInO di altre nazionalità; tutto ciò porta ad un  campione complessivo che comprende 400 CInO. Lo studio si concentra specie su questi ultimi (altri C-Levels sono usati come termine di raffronto).

[4] Altre interessanti varianti che abbiamo rilevato sono il “Chief Strategy and Innovation”, a rimarcare la stretta interdipendenza con il posizionamento strategico d’impresa, il “Chief Innovation and Growth Officer”, quale esplicita leva di sviluppo, il “Chief Communication and Innovation Officer”, quando si ritiene fondamentale costruire un’immagine aziendale fondata sull’innovazione.