I dubbi dell’amico americano sul TTIP

scritto da il 11 Maggio 2015

Il TTIP, il trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, è finalmente apparso anche nelle cronache italiane a causa delle parole tranquillizzanti ed entusiastiche espresse da Renzi l’8 maggio scorso. Sarebbe un “gigantesco autogol” se non chiudesse l’intesa entro fine anno, ha detto il presidente del Consiglio.

Paradossalmente succede che, invece, cominciamo ad avvertire maggiori preoccupazioni proprio dall’altra parte dell’Atlantico. Nel precedente post abbiamo visto come il TTIP secondo l’economista Dani Rodrik possa comportare rischi sul lato dell’armonizzazione delle regole, aprendo inoltre la strada al prevalere dello stesso sulle legislazioni nazionali e della Ue. Oggi vediamo invece come negli Stati Uniti vi siano ulteriori ragioni di allarme a causa della politica economica e monetaria dell’Eurozona.

Ha fatto sicuramente scalpore la posizione bipartisan del Congresso Usa nel voler includere nel TTIP la previsione di sanzioni verso la “currency manipulation”, cioè la volontaria manipolazione del cambio per accrescere la competitività delle proprie esportazioni. Ma questa è solo l’ultima fra tante perplessità che stanno nascendo nella politica americana sugli effetti negativi che il trattato potrebbe avere sull’economia statunitense e di conseguenza sui posti di lavoro, andando a incidere sull’orientamento nei collegi dove i rappresentanti del Congresso e del Senato vengono eletti.

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Ben due articoli su Project Syndacate nelle ultime settimane, uno di Kemal Derviş, vice presidente del think-tank Brooking Institute, l’altro del noto economista Nouriel Roubini, evidenziano con preoccupazione come le politiche monetarie ed economiche europee potrebbero rivelarsi un pericolo per l’economia Usa specie se il TTIP abbattesse del tutto le barriere commerciali senza contemplare anche regole macroeconomiche e valutarie.

La proposta di Derviş vuole comprendere non solo nei trattati ma anche in sede di Organizzazione mondiale del commercio (Wto) o di Fondo monetario internazionale (Fmi) regole e sanzioni contro le nazioni che incentivano in maniera diretta o indiretta le proprie esportazioni. In realtà il Fondo dovrebbe già verificare i casi di eccessivo surplus nel saldo delle partite correnti, ma fino ad oggi questa procedura non è mai stata usata, per la difficoltà di individuazione dei comportamenti obiettivamente distorsivi che un Paese o una Banca Centrale possono mettere in atto per lucrare vantaggi competitivi.

Roubini invece sostiene che la Ue e il Giappone stanno combattendo una vera e propria guerra valutaria, volta a recuperare quote di mercato attraverso il deprezzamento della valuta causato dalle varie operazioni di Quantitative Easing, e che anche gli Stati Uniti si stanno adeguando a questo scenario, posticipando il rialzo dei tassi sul dollaro. L’aumento continuo di comportamenti non cooperativi secondo l’economista sta mettendo in serio pericolo sia la stipula del TTIP, sia del trattato gemello asiatico TPP, almeno finché non cessino le politiche di “beggar thy neighbour” – che producono benefici soltanto a chi le adotta a danno degli altri – e si punti a una crescita spinta primariamente dalla domanda interna.

La situazione odierna dell’Eurozona vede infatti a livello di Eurogruppo una strategia di crescita ad imitazione della Germania attraverso la compressione della domanda interna, riduzione dei debiti sia pubblici che privati e con la parola competitività ripetuta ossessivamente in ogni occasione. Come risultato l’Eurozona è diventata da area in sostanziale pareggio verso il resto del mondo un’area a forte surplus verso l’estero, trainata proprio da quello della Germania, che è arrivata al 7% del Pil, sopravanzando la Cina. La svalutazione dell’euro contro il dollaro, spinta dalle recenti politiche espansive della Bce, rischia di esasperare ulteriormente questi squilibri.

Poiché il commercio mondiale alla fine è ovviamente a saldo zero e altre aree del mondo – o per motivi politici, come la Russia, o per il calo del prezzo del petrolio, come i Paesi arabi, o per il fisiologico rallentamento di un’economia anche troppo “surriscaldata” negli ultimi anni, come la Cina – vedono il loro import decrescere invece che aumentare, è comprensibile come anche negli Stati Uniti non pochi pensino di frenare sull’opportunità di proseguire verso la firma di un trattato che rischia, come dicevamo, di essere un gioco al ribasso, senza esclusione di colpi, dove vincono solo le logiche dei grandi gruppi su entrambe le sponde dell’Atlantico.

Twitter @AleGuerani