Quanto pesa la demografia sulla crescita?

scritto da il 13 Maggio 2015

Non si può spiegare tutto attraverso un’unica variabile, ma qualche riflessione sugli effetti economici della demografia può essere interessante, specialmente per l’Italia. Un Paese con bassa natalità è, naturalmente, un Paese che invecchia; è perfino banale dire che questo implica un certo pattern di domanda e che incide sulla struttura produttiva, guidando investimenti ricerca e quindi di sviluppo economico in termini molto probabilmente più “conservativi”.

Una popolazione più vecchia è anche meno propensa a rischiare, più prona a posizioni consolidate comode e relativamente sicure, o più brevemente: “rendita”. Il risparmio quindi preferirà dirigersi verso certi strumenti ed emittenti. Una popolazione vecchia è meno ricettiva verso le novità; d’altra parte i progetti imprenditoriali più innovativi (da cui conseguono innovazioni successive e la più generale competitività del Paese) sono anche quelli più rischiosi. Con risparmiatori-prestatori “vecchi” è probabile che il finanziamento verso l’innovazione risulti depresso, con tutto quel che ne consegue.

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Quanto sopra si riflette nelle forme assunte dal risparmio e dalla ricchezza (quale somma nel tempo dei risparmi): per una popolazione “vecchia” i titoli di Stato sono tra le forme di impiego più appetibili, avendo struttura semplice e rischio molto basso per definizione (specialmente finché esistono enti sovranazionali pronti a “salvare” un po’ tutti).

Dai dati (Banca d’Italia, “Supplementi al Bollettino Statistico, Indicatori monetari e finanziari: La ricchezza delle famiglie italiane, Anno 2013” pubblicato a fine 2014), in Italia le abitazioni, al netto dei mutui, valgono più di 4.500 miliardi di euro, più della metà della ricchezza netta italiana. Presso le famiglie i titoli di Stato contano circa 180 miliardi, meno del 5% della ricchezza finanziaria netta, proporzione che è però un quarto di quella del 1995 a causa dell’evidente travaso verso depositi ed obbligazioni bancarie ed assicurazioni (ingresso di nuovi strumenti e servizi e progressiva consapevolezza di nuove problematiche previdenziali), cioè verso forti finanziatori del debito statale; sommando queste ulteriori componenti (e senza contare i fondi di investimento monetari) si arriva ben oltre la metà della ricchezza finanziaria netta, oggi più di 3mila miliardi (quel che pare contare è, quindi, che almeno indirettamente il risparmio venga ancorato ai titoli di Stato).

Queste somme, a dispetto di quel che appare, non sono tesaurizzate ma vengono impiegate in progetti di spesa ed investimento decisi dall’emittente Stato; come quando convogliate in corporate bond o depositi presso banche attive con il tessuto imprenditoriale, le risorse non escono dal circuito dell’economia. Ma il prenditore è rilevante perché decide la produttività della somma impiegata e quindi la futura capacità di creazione di ricchezza dell’economia.

Lo Stato, in specie lo Stato Italiano, è più votato al consumo (tarato sulla struttura demografica, tornando all’inizio di questo post) che all’investimento (la spesa in conto capitale è una miseria a una cifra sul totale), oltretutto con una deludente qualità dei servizi resi. Concentrare l’impiego del risparmio in mani pubbliche implica nei fatti un rilevante costo-opportunità in termini di futuro, e se la ricchezza si concentra sempre più nelle fasce d’età più alte come in Italia il processo depressivo descritto ne esce magnificato (specifica indagine di Banca d’Italia del 2011 riporta che la fascia 55-64 anni concentra una ricchezza attorno a 1,4 volte quella delle fasce adiacenti, ma quasi 6 volte quella degli under 35; data la crescente disoccupazione concentrata sui “giovani” e l’allungamento della vita media, la concentrazione può solo essersi inasprita).

Il lungo declino economico dell’Italia ha certamente a che fare anche con la sua demografia. Questo apre a un discorso sulle cause della tendenza demografica da accoppiare a un discorso sulle cause della sperequazione della ricchezza – derivato della capacità di risparmio – e della sua dinamica per fasce d’età. Questo aspetto a sua volta interessa le questioni di fiscalità e servizi alle famiglie (due concetti al volo: quoziente familiare e asili), di politica migratoria (non riducibile alla semplice accoglienza di chiunque), di dualità del mercato del lavoro (per la parte di ricchezza che deriva dal lavoro), di effettiva capacità perequativa della spesa pubblica (per la parte di ricchezza che deriva dalla rendita pubblica), nonché di libertà imprenditoriale (riguardo sia alla fiscalità d’impresa che alle barriere all’ingresso che il monte normativo di fatto crea).

Non è un caso che nella nostra arrancante Italia le questioni appena menzionate siano da tempo oggetto di irrisolto e scoordinato dibattito politico: la discussione sulla spesa pubblica di solito viene ridotta ai soli sprechi, tra l’altro affrontati più a parole che a fatti.

Ricordare il quadro demografico ed i suoi risvolti finanziari sarebbe utile per recuperare una visione unitaria del problema italiano.

Twitter @LBaggiani