Congedi parentali, non ci siamo ancora perché chi scrive le regole non legge i dati

scritto da il 02 Settembre 2015

Pubblichiamo un post di Vitalba Azzollini, autrice di paper e articoli in materia giuridica che lavora presso la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, Divisione Corporate GovernanceLe opinioni espresse non riflettono il punto di vista dell’istituzione – 

CONCILIAZIONE DELLE ESIGENZE DI CURA, VITA E LAVORO: DALLE PREMESSE AI RISULTATI

di Vitalba Azzollini

Il decreto legislativo 80/2015, in materia di “conciliazione delle esigenze di cura, vita e di lavoro”, attuativo della delega del Jobs Act, ha di recente apportato modifiche alla disciplina dei congedi parentali, aumentandone la “flessibilità” ed estendendo l’arco temporale in cui possono essere utilizzati. È previsto che la misura si applichi in via sperimentale solo fino a fine anno, dunque per brevissimo tempo, considerato che la circolare INPS necessaria alla sua operatività concreta è stata emanata a distanza di circa due mesi dal citato decreto (18 agosto 2015).

Tuttavia, il Ministero del Lavoro ha di recente affermato di volerla renderla permanente con un successivo provvedimento in tema di ammortizzatori sociali. Il repentino passaggio da una sperimentazione di pochi mesi – di certo insufficiente – all’impegno di adottare definitivamente la misura in discorso, prescindendo dai risultati di qualsivoglia reale sperimentazione, attesta ancora una volta l’assenza di quell’approccio evidence based che è funzionale a ottenere gli effetti migliori, oltre che a “rafforzare l’accountability (la responsabilità nel rendere conto riguardo a scelte e risultati, ndr) del decisore”. Del resto, questa conclusione poteva già trarsi dalla scelta di privilegiare i congedi parentali rispetto ad altri strumenti di conciliazione, nonostante le evidenze circa la scarsa efficacia o, addirittura, la valenza negativa, se prolungati oltre un certo limite temporale.

Soprattutto, il regolatore nazionale sembra non valutare che la conciliazione tra vita lavorativa e familiare, rilevando per molteplici finalità parimenti importanti – dalla promozione dell’occupazione femminile all’aumento della natalità – richiede un insieme di misure tra loro connesse. Pertanto, un provvedimento isolato, qual è quello in discorso, finisce per configurarsi come un’azione parcellizzata, anziché come un tassello di politiche tra loro coordinate e, quindi, davvero incisive.

A quest’ultimo riguardo, con riferimento alla situazione italiana, l’OCSE aveva suggerito un quadro organico di interventi. In particolare, considerato che la disponibilità di servizi di cura “accessibili e di buona qualità ha un peso decisivo sulla scelta di ritornare al lavoro dopo la nascita di un figlio”, aveva segnalato la necessità di rafforzare “il sostegno all’offerta pubblica e privata di servizi di assistenza alla prima infanzia e di servizi di doposcuola”, così come “l’offerta di educatori, cioè di operatori professionali qualificati che offrono servizi di assistenza a domicilio a un numero limitato di bambini (nidi domiciliari)”; inoltre, di fornire un “sostegno alle famiglie a basso reddito per i servizi di assistenza”, “un incentivo fiscale sotto forma di detrazione d’imposta per le spese di assistenza”, nonché la riserva per i padri di “una quota del congedo parentale (…) al fine di incoraggiare il loro maggiore coinvolgimento nella cura dei bambini e di promuovere la partecipazione delle madri alla forza lavoro mediante una divisione più equa del lavoro”.

Sempre secondo l’organizzazione internazionale, è anche indispensabile “la riduzione delle aliquote d’imposizione effettive sul secondo reddito, attualmente le più elevate dell’OCSE”, che ridurrebbe anche i disincentivi all’occupazione del percipiente il reddito inferiore, di solito la donna. Il legislatore nazionale non ha tenuto conto di queste indicazioni. Eppure, sarebbe stato il momento più opportuno per imprimere uno stimolo all’impiego femminile, poiché è dimostrato che una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha effetti positivi sui consumi, sugli investimenti, sull’innovazione e, quindi, sul sistema nel suo complesso, associandosi così “meccanicamente” a un Pil più elevato.

Quest’ultimo aumenterebbe in Italia del 15% (FMI) se il divario di genere venisse colmato: al contrario, il gender employment gap nazionale continua a restare tra i più alti in Europa (si veda la mappa), come certificato da Eurostat. “Se al primo posto nella correlazione positiva con l’offerta di lavoro femminile vi è la spesa pubblica per i servizi di cura, è evidente che questa dovrebbe essere la prima scelta politica”. Invece, in Italia l’investimento per le famiglie con figli è di gran lunga inferiore alla media dell’OCSE, mentre “meriterebbe di essere considerata una priorità rispetto agli altri impieghi ‘concorrenti’ delle scarse risorse pubbliche” (OCSE, 2013).

Gender employment gap, l'Italia svetta ancora (fonte: Eurostat)

Gender employment gap, l’Italia svetta ancora (fonte: Eurostat)

Peraltro, che la conciliazione fra professione e famiglia sia uno strumento essenziale era già stato riconosciuto in ambito UE con la Strategia europea dell’occupazione (1997), inserita poi all’interno della Strategia di Lisbona (2000), al fine di raggiungere un tasso di impiego femminile pari al 60%, unitamente a un tasso di copertura dei servizi per l’infanzia pari al 33% (ma l’Italia, tra gli altri, non ha realizzato l’obiettivo).

Un esempio del modo in cui politiche organiche di tipo complementare sono idonee a promuovere l’impiego femminile e la natalità al contempo è fornito dalla Francia ove, favorendo il modello di famiglia “dual earner, dual carer”, si facilita il doppio impegno dei genitori mediante supporti tesi a coprire i costi per la cura dei figli, l’offerta di strutture pubbliche per la cura dell’infanzia e un sistema di sgravi fiscali.

L’importanza di tali politiche appare evidente dai dati inerenti ai Paesi europei che le hanno adottate (le donne con tre o più bambini lavorano più di quelle italiane con un solo figlio). Peraltro, negli Stati in cui il contesto favorevole alla conciliazione rende consistente la quota di lavoratrici si riscontrano livelli di fecondità più elevati, così come pure accade nelle regioni italiane dove è maggiore il tasso di occupazione femminile. È, inoltre, dimostrato che un maggiore reddito a disposizione delle donne si traduce in “maggiore spesa in istruzione, salute, nutrimento dei figli” e, altresì, che esiste una relazione positiva tra la presenza di asili nido e le capacità scolastiche dei ragazzi.

Tuttavia, il regolatore nazionale che, come accennato, è poco orientato a considerare la valenza dei dati empirici per elaborare le politiche efficienti e rendere più produttivo l’utilizzo di pubbliche risorse, sembra non curarsi delle menzionate evidenze. Preferisce, invece, “navigare a vista con annunci spot che prevedono l’apertura di asili nido”, salvo poi di fatto smentirli con il mancato investimento di fondi per “servizi di baby sitting e asili pubblici in prossimità dei luoghi di lavoro o di residenza della lavoratrice o, in alternativa, l’incentivazione di servizi innovativi quali il nido di famiglia o la tagesmutter”, in conformità alle indicazioni della Commissione Lavoro del Senato, nonché come previsto da uno dei principi della legge-delega (rimasta inattuata anche riguardo alla previsione di agevolazioni fiscali per le lavoratrici con figli).

Eppure, secondo i dati Istat, la quota di domanda di asili soddisfatta, rispetto al potenziale bacino di utenza (residenti tra zero e due anni), è pari solo all’11,9% (13% se si aggiungono altri servizi socio-educativi per la prima infanzia, cui contribuiscono i Comuni, come i “nidi famiglia”, i servizi organizzati in contesto familiare ecc.): è una percentuale molto lontana dal citato 33% raccomandato dall’Europa, nonché rispetto a quella raggiunta da altri Paesi europei (50% in Danimarca, Svezia e Irlanda). La conseguenza è che uno dei fattori maggiormente incidenti sull’abbandono dell’occupazione da parte delle madri è l’assenza di “persone o servizi a cui affidare i bambini mentre si è al lavoro” (Istat, 2014).

Infine, il regolatore non ha mostrato di andare oltre il “classic male-breadwinner model”, non prevedendo alcun incentivo all’uso dei congedi parentali da parte dei padri, al fine di una più equa ripartizione di compiti familiari atta a favorire l’impiego delle madri. Se a ciò si aggiunge che i voucher per asili nido, strumento per “sostenere la genitorialità” alternativo al congedo parentale, introdotto con la riforma Fornero, di fatto è fruibile solo dalle donne, per un periodo di tempo limitato e con modalità pesantemente vincolate, appare palese che il decision maker nazionale resta ancorato alla tradizionale visione femmino-centrica riguardo l’assolvimento delle incombenze familiari.

Da scelte normative non conformi alle raccomandazioni fornite in sedi competenti, non fondate sulle evidenze di studi e dati empirici, non ispirate alle esperienze di altri Paesi, né volte a superare modelli culturali ormai obsoleti, potrà ottenersi il risultato di una “conciliazione” idonea a promuovere efficacemente il lavoro femminile?

Twitter @vitalbaa