Norme complesse e costose? Si può fare qualcosa al riguardo. Obama docet

scritto da il 25 Settembre 2015

Pubblichiamo un post di Vitalba Azzollini, autrice di paper e articoli in materia giuridica che lavora presso la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, Divisione Corporate Governance. Le opinioni espresse non riflettono il punto di vista dell’istituzione – 

Una delle evoluzioni più interessanti della scienza giuridica è stata la sua progressiva apertura alle analisi economiche. Ne è palese testimonianza la sempre maggiore attenzione ai costi della regolazione – a causa di oneri e limiti che impone ai soggetti privati e delle spese di elaborazione ed attuazione che causa a quelli pubblici – e il conseguente obbligo prescritto al Governo, ormai il principale rule maker, di giustificare la decisione di ricorrervi in funzione dei risultati attesi (l. n. 246/2005).

Lo strumento a ciò preposto è l’analisi di impatto (AIR), finalizzata non solo a stimare in maniera motivata se l’interesse oggetto di tutela abbia un valore più rilevante del costo che il suo soddisfacimento comporta, ma di graduare la pervasività delle diverse ipotesi di intervento – dalle più restrittive alle meno invasive – in relazione al peso dell’interesse stesso. L’AIR assolve quindi, tra l’altro, al compito di motivare il “prezzo” imposto alla libertà individuale.

L’economia è, a propria volta, sempre più influenzata dalle scienze del comportamento che, sulla base degli studi degli psicologi cognitivi e delle evidenze empiriche inerenti alle condotte umane, hanno portato allo sviluppo della behavioral economics. Quest’ultima è utile altresì in ambito giuridico, a supporto dell’elaborazione del disegno regolatorio, in quanto idonea a ridurre l’asimmetria informativa tra il policy making e i destinatari delle sue decisioni. Il behavioral approach, fornendo indicazioni circa i limiti cognitivi e le reazioni dei destinatari della disciplina, può coadiuvare la stima degli effetti delle diverse opzioni di regolazione e la scelta dei relativi strumenti.

La behavioral economics fa sì che il decision maker possa tenere conto di fattori (come l’inerzia, le forti resistenze a cambiare una situazione, la tendenza a fare eccessivo affidamento su singoli aspetti di informazioni molto più complesse, la riluttanza a modificare decisioni già prese, l’ottimismo, l’avversione alle perdite, la sovrastima delle proprie capacità di valutazione ecc.) che, se non adeguatamente considerati, sono atti a determinare fallimenti regolatori; per altro verso, a fronte di fallimenti già verificatisi, essa può indicare le cause per cui, ad esempio, non hanno funzionato gli incentivi normativamente preordinati al perseguimento di finalità prefissate o dimostrare che di certe forme di “tutela”, paternalisticamente predisposte, i destinatari non hanno forse alcun bisogno.

Le cognitive science potrebbero costituire, pertanto, un importante supporto laddove si decidesse di rimediare finalmente all’ipertrofia normativa che caratterizza l’ordinamento – sfrondandolo di norme inutili, inefficaci o ridondanti – oppure di evitare che quest’ultima si aggravi ulteriormente.

L’uso di evidenze sperimentali, specie se relative a comportamenti umani, può consentire non solo una migliore valorizzazione degli interessi dei regolati, ma altresì un risparmio per i regolatori mediante il ricorso a strumenti alternativi e meno onerosi rispetto al command and control tradizionalmente usato, quali nudge e information empowerment. A fronte dei limiti cognitivi individuali, il command and control disciplina coercitivamente le condotte con obblighi e divieti, sacrificando l’autonomia privata; invece, le nudge strategy tendono a indirizzare i comportamenti mediante “spinte gentili” (che non comportano mai costi aggiuntivi), ferma restando comunque la libertà di compiere scelte “cognitivamente limitate”; mentre l’operational empowerment fornisce ai destinatari informazioni mirate affinché possano ovviare alle proprie carenze.

Un metodo cognitive based usato negli Stati Uniti è, ad esempio, l’indicazione nelle bollette dell’energia elettrica di quanto spendono mediamente altri consumatori, nonché l’importo pagato dal più virtuoso tra i vicini di casa, affinché lo spirito di competizione possa fungere da “pungolo” al risparmio energetico. Altro esempio negli USA è rappresentato dalla pubblicazione su un sito web istituzionale dei settori nei quali viene utilizzato l’introito fiscale, perché i cittadini abbiano contezza dell’utilità delle tasse e siano così meno propensi a evaderle.

Inoltre, per favorire la donazione degli organi, ovviando a bias di inerzia o di procrastination, alcuni Paesi adoperano anziché un sistema opt-in, per cui il privato decide se iscriversi al relativo registro, un sistema opt-out, in cui l’iscrizione è automatica e la scelta “attiva” è eventualmente la cancellazione. Possono citarsi, inoltre, strumenti fondati sull’informazione, come i confronti tra offerte commerciali o le tecniche con cui si dà risalto a taluni dati, nella mole di quelli disponibili, al fine di agevolare le valutazioni di destinatari non specificamente competenti.

Soluzioni fondate sui behavioral insights – che “incoraggino, supportino e permettano alle persone di fare scelte migliori per se stesse” – non prescrivono comportamenti, ma mirano a convogliarli verso la direzione che il regolatore reputa maggiormente desiderabile per il bene individuale e collettivo, al contempo: a differenza delle regolazioni basate su obblighi e divieti, non hanno valenza impositiva, quindi resta salvaguardata la facoltà di scelta dei destinatari.

Il rischio che questi ultimi vengano “manipolati” può essere arginato mediante una loro partecipazione informata al processo decisionale: essa, da un lato, offre al legislatore elementi concreti di conoscenza, dall’altro, lo obbliga alla trasparenza circa i fini perseguiti, la motivazione delle scelte operate, nonché gli effetti attesi dalla disciplina adottata. Parimenti, non determinano un condizionamento o, comunque, una compressione dell’autonomia privata, i sistemi in base ai quali vengono forniti al pubblico dati e notizie indicati dal decisore.

Al contrario, l’eccesso di informazioni rischia di creare “opacità per confusione”, mentre la selezione degli elementi più rilevanti, lasciando comunque ai singoli la libertà di integrare quelli mancanti, promuove una più consapevole valutazione personale.

Banca Mondiale e OCSE evidenziano il valore dei behavioral insights nella elaborazione del disegno regolatorio cognitive based; la UE se ne avvale nella predisposizione delle politiche in diversi settori, attraverso studi che raccolgono evidenze circa percezioni e condotte individuali; il BIT inglese, Behavioural Insight Team, assiste l’operato del governo servendosi dell’analisi matematica e di studi sul comportamento; il francese SGMAP, Secrétariat Général pour la Modernisation de l’Action Publique, mediante analisi di big data e behavioral economics, indirizza i decision maker verso riforme che abbiano effetti concreti e misurabili, anche ai fini della semplificazione e della qualità della regolazione.

L’OIRA statunitense, l’Office of Information and Regulatory Affairs, impiega da tempo le cognitive science nella progettazione e attuazione delle politiche pubbliche. In particolare, la recente promulgazione (15/9/2015) dell’Executive Order dal titolo “Using Behavioral Science Insights to Better Serve the American People” riveste un’importanza rilevante, in quanto l’utilizzo delle evidenze empiriche rivenienti dalle behavioral science viene per la prima volta ufficializzato in un decreto del presidente Obama. Quest’ultimo dispone, infatti, che i dipartimenti e le agenzie governative disegnino interventi fondati sulle indicazioni fornite dalle scienze comportamentali, mediante il supporto del Social and Behavioral Sciences Team, e precisa altresì modalità e fini per l’uso dei relativi dati.

I decisori nazionali non sembrano, invece, molto interessati ai temi sopra trattati. Tempo fa venne avanzata la proposta di creare una Be-Have Unit nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri (proposta analoga è presso la Regione Lazio), “finalizzata a progettare e validare sulla base dell’evidenza comportamentale nuove forme d’intervento a basso costo in grado di semplificare la vita dei cittadini e di ridurre significativamente alcune voci di spesa”.

Tale proposta muoveva dalla circostanza che “spesso l’adozione di politiche pubbliche deriva da assunzioni preconcette, ideologiche, se non demagogiche, e avviene in assenza di studi volti a determinare quale sarà l’esito che tale intervento produrrà sui nostri comportamenti”: non risulta che, al momento, essa abbia avuto seguito. Forse il regolatore italiano patisce a propria volta limiti cognitivi nei riguardi delle behavioral science?

Twitter @vitalbaa