Renzi, Puviani e il canone in bolletta, ultima illusione finanziaria

scritto da il 27 Ottobre 2015

Partiamo dalla buona notizia: auspicabilmente, il prossimo mese di gennaio non sarà più funestato dai penosi spot con cui, per anni, la Rai ci ha rammentato l’imminente scadenza per il saldo del canone. Indubbiamente, questo grottesco martellamento ha contribuito a farne il tributo più odiato dagli italiani, sbeffeggiati dall’ambiguità di pubblicizzarlo come fosse il prezzo di un servizio scelto liberamente dal consumatore e non un’imposta, in quanto tale slegata da qualsiasi ipotesi di fruizione. Cornuti e tassati.

Si è discusso molto dei dilemmi e dei contraccolpi pratici che la decisione del governo di rimettere ai fornitori di energia elettrica la riscossione del tributo porta con sé. Come adeguare e coordinare i sistemi di tariffazione? Come remunerare gli operatori per tale corvée indesiderata? Come ripartire il rischio di morosità? Naturalmente, a queste domande – che interessano il sistema nel suo complesso – si affiancano quelle più prossime alle preoccupazioni dei contribuenti. Sarà assicurata la continuità delle esenzioni? Saranno previsti strumenti per evitare indebiti episodî di doppia tassazione? Vi è il rischio che l’acquiescenza al nuovo meccanismo di prelievo si riveli un cavallo di troia per assodare i mancati pagamenti pregressi?

Allo scontento delle aziende elettriche, trasformate in esattrici loro malgrado, e dei contribuenti, costretti a un cambio di paradigma che riserva loro solo svantaggi – considerato che anche il minuscolo beneficio della rateazione si è smarrito nella successione delle bozze – fa da contraltare l’ovvia soddisfazione della Rai, che intasca un sontuoso risarcimento (ricorrente) a fronte della decurtazione di 150 milioni sancita (una tantum) con la scorsa Stabilità.

Secondo una simulazione curata da I-Com e ripresa dal nostro blog gemello Info Data Blog, la riscossione del canone in bolletta, nella misura di 100 € annui individuata dall’esecutivo, implicherà un aumento di gettito di 700-800 milioni rispetto al risultato anomalo del 2014 e di 550-650 milioni rispetto al dato del 2013. Considerando, per eccesso di prudenza, un tasso di morosità del 10%, sarebbe bastato un canone di 80 € per mantenere il gettito complessivo al livello del 2013 – a dimostrazione del fatto che quello di “pagare meno per pagare tutti” è un principio piuttosto malleabile.

Confronto incassi canone Rai

L’aspetto su cui si è indagato meno è quello dei presupposti e dell’impatto politico-economico della misura. L’istituto del canone risale al 1938: a un’epoca, cioè, in cui la televisione per gli italiani era ancora un passatempo esotico. Ha attraversato le diverse fasi di sviluppo del fenomeno televisivo, sostanzialmente immutato nella lettera, ma profondamente innovato nell’interpretazione: l’originaria configurazione come corrispettivo è stata superata dall’accreditamento della sua natura tributaria (di tassa, prima, e da ultimo d’imposta). I ciclici tentativi di adeguarne l’impianto al mutato scenario tecnologico hanno costantemente mirato a rimpolpare il gettito del tributo – estendendone fantasiosamente l’ambito: memorabili le diatribe su smartphone e videocitofoni – piuttosto che a ripensarne la funzione complessiva.

In particolare, si è sempre ritenuto apoditticamente che non potesse darsi un servizio pubblico televisivo senza canone:  assunto smentito, senza troppo vagare geograficamente e ideologicamente, dalla nutrita pattuglia dei paesi UE che hanno optato per metodi di finanziamento alternativi (Bulgaria, Cipro, Estonia, Finlandia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Ungheria).

Ancor più a monte, l’elaborazione in materia ha immancabilmente sorvolato sulla ragion d’essere del servizio pubblico televisivo, troppo spesso sovrapposta con la tutela della concessionaria. Tanto che oggi il Governo si affanna a riformarne il finanziamento e la governance, mentre l’azienda opera senza contratto di servizio da quasi tre anni e l’imminente scadenza per il rinnovo della concessione – occasione ideale per un’ampia riflessione sulle prospettive del nostro sistema televisivo – passa in secondo piano.

Che tipo d’imposta è oggi il canone? Cosa finanzia esattamente? Un bene pubblico? Certo che no, perché la tecnologia per escludere gli spettatori non paganti è ampiamente disponibile. Un bene meritorio? Opinione audace, se viene impiegato per sostenere produzioni edificanti come “Un posto al sole” e “Voyager”. Una garanzia di pluralismo? Giustificazione labilissima, nell’era del digitale terrestre, del satellite, di internet. Un meccanismo redistributivo? Difficile sostenere che il possesso di un televisore manifesti una significativa capacità contributiva, specie se confrontiamo il valore medio dell’apparecchio e l’importo del tributo.

E se davvero il governo è dell’opinione che il servizio pubblico televisivo abbia ancora un senso e che il suo finanziamento debba essere addossato a una platea quanto più ampia di contribuenti, perché non porlo a carico della fiscalità generale? Semplicemente perché ciò imporrebbe di reperire altrove quelle risorse, tagliando la spesa o aumentando le imposte per un importo corrispondente. Molto meglio prendere un’imposta visibile e detestata, accoppiarla a una tariffa che con la prima non ha alcuna relazione, sotterrarla in un documento già piuttosto astruso, ridurne l’importo di una frazione per ostentare magnanimità e sperare che i contribuenti se ne dimentichino presto.

Con quest’operazione, Renzi dimostra di aver interiorizzato una grande tradizione di governo: quella dell’«illusione finanziaria», magistralmente disvelata da Amilcare Puviani all’inizio del ventesimo secolo. Ancor prima, Jean-Baptiste Colbert osservò che «la tassazione è l’arte di spennare l’oca ottenendo la massima quantità di piume con il minor numero di strilli». Lo schema del canone in bolletta non è certo una novità, ma è anche da trovate come questa che si misura la civiltà tributaria di un paese.

Twitter @masstrovato