Connessi e infelici? L’economia digitale e il lavoro che cambia: da dove ripartire

scritto da il 16 Dicembre 2015

Pubblichiamo un post di Antonio Aloisi e Valerio De Stefano. Aloisi è dottorando in Diritto del Lavoro alla Bocconi di Milano. De Stefano è Teaching Fellow alla Bocconi di Milano e Technical Officer all’International Labour Office* –

CONNESSI E INFELICI: LE TUTELE E LA SOPRAVVIVENZA DEL DIGITAL LABOR

di Antonio Aloisi e Valerio De Stefano

Sgombriamo il campo da un equivoco, il numero di convegni sul tema della sharing economy fa un torto – per eccesso – alle dimensioni attuali del fenomeno. Ci sono tuttavia diverse buone ragioni per approfondire la questione, avendo cura di scegliere una prospettiva abbastanza inedita – quantomeno in Europa: quella del diritto del lavoro.

In primo luogo, le discussioni sul destino degli autisti di Uber e dei loro colleghi rappresentano la tessera più luccicante di un mosaico ampio che riguarda un processo globale di “casualizzazione” dei rapporti di lavoro, cui si accompagna un doppio trend di trasferimento al lavoratore di porzioni di quel rischio d’impresa che non dovrebbe riguardarlo e di spinta verso il sommerso di segmenti di mercato tradizionalmente regolati.

Inoltre, la vicenda dell’economia collaborativa incorpora due esigenze ormai scontate: l’inevitabile digitalizzazione, da un lato, e l’istantaneità della prestazione, dall’altro. Potrebbe apparire un vezzo schizofrenico, eppure scrivere di sharing economy torna utile per parlare di altro: è un dazio che va pagato.

Mi piego ma non m’impiego

Proveremo tuttavia ad allargare il campo, occupandoci più delle cause che degli effetti. Tra le tante, lo stravolgimento della struttura tradizionale del mercato del lavoro, la spirale di “freelancizzazione” di alcune professioni (specie quelle della “economia della conoscenza”), il rischio d’inservibilità della classe media impiegatizia, il basso tasso di innovazione di modelli tutt’altro che “disruptive”, la crescita progressiva del fenomeno dell’autoimprenditorialità (spesso anche micro). Per farla breve, questo soi-disant settore in ascesa va collocato all’interno di una cornice composita la cui caratteristica dominante è l’estrema flessibilizzazione delle relazioni professionali. Non un male né un bene assoluto: un fatto ostinato con cui fare i conti. E le app che ci capita di maneggiare sono solo la punta dell’iceberg.

In ogni caso, una ricerca commissionata da Uber ha riconosciuto che solo il 24% degli autisti statunitensi della società – su un totale di circa 400.000, a detta dello stesso colosso della Silicon Valley – riesca a vivere di ciò che guadagna grazie al popolare servizio di car-hailing. Può essere che il posto “stabile” diventerà sempre più un lontano ricordo, ma è altrettanto onesto ammettere che le piattaforme di lavoro “on–demand” rappresentano uno strumento solo complementare di introito per i lavoratori.

Stiamo considerando una piccola fetta di PIL, stando alle ammissioni degli esperti (pari a circa lo 0,1% – 1% ma con 0,9% di mancati introiti – sostiene Crédit Suisse in un recente lavoro**), in cui tuttavia si manifestano con maggiore evidenza gli indirizzi sistemici sopra richiamati. A riportare ordine ci pensa un certosino lavoro di mappatura condotto con rigore dal network Collaboriamo: il 70% delle piattaforme italiane ha meno di 10.000 utenti iscritti, cifra che condanna l’ecosistema al nanismo. Almeno per ora.

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Figura 1: Rebecca Smith & Sarah Leberstein, 2015. Rights on Demand: Ensuring Workplace Standards and Worker Security In the On-Demand Economy (New York, National Employment Law Project).

Le buzzword sono importanti

È impossibile tenere il conto delle piattaforme che negli Stati Uniti facilitano la vita degli utenti: dai trasporti condivisi al noleggio di tuttofare, dalle pulizie just–in–time alla consegna di prodotti alimentari, dalle ricerche giuridiche alle campagne pubblicitarie (Figura 1, non esaustiva). C’è tutto un mondo intorno a AirBnb e Uber, le due società sono solo le ammiraglie di una flotta salpata dalla East Coast e ora in arrivo dalle nostre parti – digital divide permettendo. Le caratteristiche di questi sedicenti “marketplace” sono eterogenee, esistono tuttavia molti punti di contatto che fanno sì che si possa descriverli come specie di uno stesso genere.

Basta poco per anticipare che il 2016 sarà l’anno di questa economia. A proposito di etichette definitorie, non mancano i contrasti. Si sono sprecati i lamenti per la scomparsa della «sharing economy»: la sua essenza resiste nelle pratiche collaborative a livello locale oppure come una regola di buon vicinato. Allo stesso modo, niente di nuovo sembra rivelare il concetto di «on-demand economy»: si tratterebbe a tutti gli effetti di una sofisticazione tecnologica del modello di business “a consumo” – oltreatlantico direbbero “pay–as–you–go”; il lavoratore è pagato solo quando effettivamente lavora, senza alcun trattamento per riposi, malattia, ferie o maternità.

Dell’economia dei lavoretti (la gig–economy, appunto) sentiremo molto parlare: abbiamo a che fare con una versione efficiente di capitalismo tradizionale. Proprio per questa sua matrice genetica, il fenomeno è qui per restare: si fonda, infatti, sull’abbattimento dei costi di transazione e sulla velocità di mobilizzazione e demobilizzazione della forza lavoro. A voler essere brutali, si potrebbe parlare di “esternalizzazioni elevate alla potenza digitale” – con una traduzione libera dell’espressione “crowdsourcing”***. Per convincersene, basta scorrere le pagine che riportano le “condizioni di utilizzo” delle diverse piattaforme, per esempio Amazon Mechanical Turk. Le clausole sottoscritte dai lavoratori escludono ogni responsabilità della società che, consapevoli di agire in un’area grigia dal punto di vista regolatorio, insistono nel qualificare i crowdworker come liberi professionisti e non come dipendenti.

Ce lo chiede l’Europa?

Il dibattito europeo si è “incartato” da tempo, riproponendo una particolare variante della disfida tra apocalittici e integrati. Proprio un mese fa, il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen ha rotto gli indugi, dichiarando pubblicamente la presunta inadeguatezza di certe leggi nazionali rispetto al contesto dell’era digitale. Gli argomenti usati sono gli stessi del marketing delle corporations al netto dei parallelismi eccessivi: «Bloccare l’innovazione è come stare dalla parte dei vetturini a cavallo all’epoca dell’invenzione delle autovetture».

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È un paragone scorretto, a dire il vero, tanto più che si attende una pronuncia della Corte di Giustizia Europea, chiamata da un giudice spagnolo a stabilire se Uber eroghi un servizio di trasporto o di natura tecnologica. Non è una questione banale, qualora infatti la Corte decidesse che si tratta di un vettore, Uber dovrebbe conformarsi alle tante normative nazionali, spesso penalizzanti, riducendo di molto il proprio vantaggio competitivo in alcuni Stati o interrompendo del tutto le attività in altri Paesi (cosa che è avvenuta in Italia con il servizio UberPop). Se invece si qualificasse questo servizio come tecnologico, il potere regolatorio passerebbe in capo alla Commissione.

Il tondo nel quadrato

Altrove, in primis negli Stati Uniti, il confronto è quasi totalmente imperniato sugli aspetti giuslavoristici di queste forme di lavoro. Al centro del dibattito resta la contesa sul corretto inquadramento giuridico dei lavoratori: una questione non di lana caprina. Le cause in corso non hanno detto una parola definitiva sul tema: si tratta spesso di ricorsi presso giudici amministrativi, il cui esito varia di caso in caso.

Analizzando gli elementi concreti della relazione tra piattaforma e lavoratore, si ravvisano gli elementi tipici della subordinazione:

(i) istruzioni dettagliate su come comportarsi in determinate situazioni (su YouTube si trovano dei tutorial che si spingono a suggerire di sorridere o di offrire una bottiglia d’acqua ai clienti per garantirsi una valutazione “stellare”) dunque esercizio del potere direttivo;

(ii) monitoraggio costante e valutazione della performance – dunque esercizio del potere di controllo;

(iii) possibilità in capo alla società di disattivare inopinatamente l’account;

(iv) compensi orari spesso rosicchiati da spese di carburante e mantenimento del veicolo, a fronte di commissioni aziendali del 15-20%;

(v) totale “sovrapposizione” tra il contenuto della prestazione del lavoratore e il core business aziendale.

Classificare questi lavoratori come autonomi è il punto di forza del modello di business di questi incumbent (a proposito: c’è sufficiente spazio per gli altri?). Il risparmio generato in termini di tutele è piuttosto elevato; nessuna spesa per straordinario, malattia, nessun preavviso in caso di licenziamento né alcuna indennità, nessun contributo assicurativo o pensionistico.

Alcune recenti esperienze, prima fra tutte quella di Instacart, testimoniano tuttavia una sorta di inversione di rotta: assumere i fattorini, almeno con una formula part–time, ha un impatto positivo sulla qualità del servizio reso****.

Che ne sarà di noi

I fanatismi pro o contro questi fenomeni sono debolezze uguali e contrarie. Ci si augura che il 2016 possa anche essere l’anno della lucidità. Il lavoro sta cambiando forma, ma abbiamo principi generali e strumenti giuridici per offrire protezioni ai lavoratori e arene contendibili alle imprese. Le proposte di categorie “nuove”, “ibride”, “intermedie” sono velleitarie, se non ingenue (si pensi solo al disastro tutto italiano della “para–subordinazione”, ma ci sarebbe bisogno di un post dedicato).

Occorre focalizzarsi sull’enforcement delle norme esistenti e su un eventuale allargamento della rete delle protezioni sociali: a partire dalla definizione per legge o tramite contrattazione collettiva, di compensi minimi fino all’assicurazione contro la disoccupazione. La maturità del fenomeno incoraggia una riflessione disintossicata e disinteressata: che sia la volta buona per tornare ad occuparsi della struttura economica dei rapporti di lavoro?

Su Twitter:

@_aloisi 

@valeriodeste

NOTE

*Le opinioni espresse sono personali e non riflettono necessariamente la posizione dell’ILO.

**Lo studio, in particolare il capitolo “What’s the value added of the sharing economy?”, si riferisce al contesto svizzero, ma – per stessa ammissione del redattore – “i risultati cambierebbero di poco se si considerassero altre paesi industrializzati, come gli Sati Uniti e i Paesi Europei”.

*** Suggeriamo un approfondimento a cura di World Bank, dal titolo “The Global Opportunity in Onine Outsourcing”> (2015).

****Un caso diametralmente opposto è quello del fallimento di HomeJoy, piattaforma di pulizie on-demand. Le ragioni potrebbero essere diverse, e non è solo per via delle cause intentate ai fini della riclassificazione dei lavoratori.

– Da leggere: Valerio De Stefano, The Rise of the ‘Just-in-Time Workforce’: On-Demand Work, Crowd Work and Labour Protection in the ‘Gig-Economy’

– Da leggere inoltre su Nòva: Emanuele Dagnin, “Lavoro e lavoratori nella sharing/on-demand economy