Le pensioni degli italiani e la differenza fra statista e politico

scritto da il 04 Gennaio 2016

Pubblichiamo un post di Francesco Bruno, Master in Law and Economics, già collaboratore di Leoni blog – 

PENSIONI: PROBLEMA GRAVE OGGI, GRAVISSIMO DOMANI

di Francesco Bruno

Se in gennaio è stata subito falsa partenza con i pagamenti delle pensioni posticipati al quinto giorno del mese, dicembre è stato caratterizzato dalla pubblicazione di una serie di dati, statistiche e commenti che hanno riportato alla ribalta questo tema cruciale, che preoccupa come pochi l’opinione pubblica.

Il 1 dicembre è stato pubblicato il rapporto dell’OCSE “Pensions at a Glance 2015”, giunto alla decima edizione, mentre due giorni dopo è stata la volta dell’ISTAT, con il rapporto “Trattamenti pensionistici e beneficiari”. In quei giorni abbiamo altresì assistito a scambi di battute fra il presidente dell’INPS Tito Boeri e il ministro del Lavoro Giuliano Poletti, di cui si dirà nel prosieguo.

Il tema, si sa, è spigoloso e delicato, ma partiamo dal report dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, il quale si intreccia anche con i dati ISTAT.

Gli avvertimenti dell’Ocse

Il lungo e completo rapporto dell’OCSE fornisce una panoramica esaustiva dei sistemi pensionistici adottati nei 34 Paesi membri dell’Organizzazione con sede a Parigi. Sono almeno tre gli indicatori contenuti nel rapporto che rappresentano altrettante questioni inerenti il presente e il futuro sia del nostro sistema pensionistico, sia del mercato del lavoro.

1 – Contributi obbligatori

È forse la nota più dolente ed ha avuto maggior risalto mediatico. A pagina 177 del report, si legge che in un gruppo selezionato di 19 Paesi OCSE che presentano un maggiore collegamento tra contributi versati e sistema pensionistico, l’Italia è al primo posto per i contributi previdenziali versati, corrispondenti al 33% del salario da lavoro dipendente. Il 23,81% è pagato dai datori di lavoro, il 9,19% dai lavoratori. Si tratta di un tasso altissimo, considerato che la media del gruppo nel 2014 è stata pari al 18%. Siamo ampiamente distanti da altri Paesi dell’eurozona come il Belgio (16,4%), la Germania (18,9) e la Francia (21,25%).

Sono facilmente intuibili gli effetti di tali percentuali sul mercato del lavoro e sull’economia in generale (parliamo dei soli contributi previdenziali). Effetti dirompenti e distorsivi sicuramente per gli imprenditori che ne pagano direttamente la maggiore quota, ma anche per i lavoratori, i quali apparentemente ne pagano meno di un terzo. Come era solito sostenere Milton Friedman, la divisione del versamento dei contributi tra datore di lavoro e lavoratore è spesso un’illusione formale, lontana dalla realtà.

Nei fatti tali versamenti incidono pesantemente sui lavoratori, poiché all’imprenditore interessa quanto gli costi ogni dipendente, a prescindere da quanto corrisponda direttamente a quest’ultimo e quanto allo Stato o agli Enti previdenziali: “Più devo dare allo Stato, meno darò al lavoratore”. Nessuno si sorprenda quindi di livelli salariali bassi con queste percentuali. E se qualcuno si illude altresì di poter intervenire a favore dei lavoratori alzando la soglia del salario minimo, si sbaglia nuovamente, perché favorirebbe solo un’ulteriore diminuzione del tasso di occupazione.

Probabilmente chi si aspetta di vedere effetti consistenti del Jobs Act sull’occupazione, dovrebbe cercare una strada per avvicinare il peso dei contributi alla media OCSE, senza dimenticare le altre voci che compongono il cosiddetto cuneo fiscale.

2 – Spesa pubblica

Altra nota dolente. Durante il periodo 2010-2015 le pensioni pubbliche italiane hanno assorbito mediamente il 15,7% del PIL rispetto a una media OCSE del 9%. Un livello di spesa inferiore solo alla Grecia (16,2%), maggiore rispetto ad altri Membri UE come Olanda (6,9%), Regno Unito (7,7%), Germania (10%), Belgio e Spagna (11,8%), Francia (14,9%). Si rammenta che spendiamo per l’istruzione meno del 5% del PIL.

Nel rapporto sopracitato, anche l’ISTAT evidenzia che nel 2014 la spesa per pensioni è stata di poco superiore ai 277 miliardi di euro, segnando un + 1,6% rispetto l’anno precedente, con una percentuale di rapporto con il PIL pari al 17,7%. Inoltre, a preoccupare – visti i noti livelli del debito pubblico, ben oltre il 130% del Pil – sono anche i necessari trasferimenti annuali di risorse dallo Stato centrale (quindi, fiscalità generale) all’INPS, che superano i 100 miliardi.

Qualcuno potrebbe obiettare che una maggiore spesa destinata alle pensioni non è di per sé negativa, poiché si traduce in maggior benessere dei lavoratori in pensione. In parte ciò è (per il momento) ancora vero, perché nel 2013 il reddito medio dei pensionati Over 65 è stato alto, pari al 95,6% rispetto a quello dei lavoratori in attività. Tuttavia esso è stato inferiore – all’interno dell’Eurozona – alla Francia (100,4%) e ad altri Paesi come Spagna (95,9%), Portogallo (96,3%) Grecia (97,5%) e Lussemburgo (106%), le cui rilevazioni sono però ferme al 2012.

Riassumendo: spendiamo di più, ma i pensionati stanno meglio dove si spende di meno. A riprova di ciò, i pensionati considerati in situazione di povertà nel 2012 sono stati il 9,3%, che è un risultato migliore rispetto alla media OCSE (12,6%), ma peggiore rispetto a tanti Paesi dell’UE che spendono meno di noi per le pensioni, come Olanda (2%), Francia (3,8%), Spagna (6,8%) Portogallo (8,1%).

Ovviamente il livello di spesa non dipende solo da un’inefficiente gestione delle risorse. Come rileva il rapporto gli ultrasessantacinquenni rappresentano il 21,7% della popolazione contro il 16,2% della media OCSE. Anche l’invecchiamento della popolazione è dunque una minaccia per la sostenibilità finanziaria del sistema.

Una nota positiva evidenziata nel report concerne invece la proiezione futura della spesa pubblica per le pensioni che – in virtù della riforma del 2011 – potrebbe ridurre la percentuale di spesa al 13,8%, in controtendenza rispetto ad una media OCSE che sembrerebbe destinata a salire all’11,3%. Se questo può essere visto come un bene per quanto attiene la sostenibilità del sistema, tuttavia questo aggiustamento provoca pericolosi squilibri inter-generazionali affrontati nel prossimo punto.

3 – Effetti distorsivi del sistema contributivo in vigore

Se da un lato il regime contributivo garantisce una migliore sostenibilità rispetto a quello retributivo, dall’altro lato esso si scontra pesantemente con le dinamiche preoccupanti del mercato del lavoro italiano. Molti sembrano soffermarsi solo sull’età pensionabile che inevitabilmente dovrà aumentare, anche se nel 2014 la media effettiva di uscita dal lavoro è stata ancora di 61,4 anni per gli uomini e 61,1 anni per le donne, con l’ISTAT che segnala che un pensionato su quattro attualmente ha meno di 64 anni.

Il vero motivo di preoccupazione evidenziato dall’OCSE e rilanciato da Boeri concerne invece i giovani, soprattutto quelli nati negli anni ’80 e ’90.

Circa il 25% degli appartenenti alla fascia di età 16-29 anni né studia, né lavora. Il tasso di occupazione è del 39,5% nella fascia di età 15-34, mentre il tasso generale è fermo al 56,4% (media OCSE superiore al 66%). Questo implica forti preoccupazioni legate al nuovo modello previdenziale.

La riforma del 2011 ha infatti sancito uno stretto legame tra contributi versati e prestazioni pensionistiche ricevute. Questo sistema – pur presentando dei vantaggi – rappresenta un serio rischio per chi ha difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro o a proseguire una carriera senza interruzioni. Se la flessibilità in uscita e in entrata è il modello prescelto per l’efficientamento del mercato del lavoro, sorprende poi constatare che l’Italia si contraddistingue per una delle maggiori decurtazioni della pensione nei casi in cui manchino i versamenti contributivi per un periodo di 5 anni. Perfino per i lavoratori a basso reddito vi sarà una decurtazione del 10%, sette punti percentuali in più rispetto alla media OCSE.

Siamo sicuri che sia equo un sistema che incentivi un modello di mercato del lavoro flessibile e dinamico, ma che allo stesso tempo faccia pagare un prezzo salatissimo a chi non ha quella ininterrotta continuità contributiva che solo il posto fisso può forse dare? E siamo sicuri che sia equo un sistema dove anche chi riceverà una pensione di poco superiore a quella sociale a causa – ad esempio – di un ingresso ritardato nel mondo del lavoro, debba comunque versare contributi elevatissimi, laddove riceverebbe pressoché la stessa pensione senza alcun versamento contributivo?

L’apparente assenza di alternative

Come già riportato, il presidente dell’INPS ha lanciato recentemente un allarme sulla base di una simulazione effettuata dall’istituto previdenziale dalla quale si evince che la generazione nata negli ’80, pur andando in pensione più tardi (circa 70 anni), potrebbe ricevere una pensione inferiore al 25% rispetto alla generazione precedente, con un tasso di sostituzione del 62%. Un allarme ampiamente condivisibile e doveroso.

Il ministro del lavoro Poletti, pur condividendo l’analisi dell’INPS, ha commentato la notizia constatando l’assenza di soluzioni alternative al versamento dei contributi da parte dei giovani. Ma non si può fare proprio nulla?

L’OCSE ritiene innanzitutto che occorra ancora migliorare le politiche occupazionali, pur riconoscendo dei meriti per l’introduzione del Jobs Act. Tuttavia convince meno la possibilità di anticipare il TFR in busta paga e, soprattutto, l’aumento della tassazione sui fondi pensione dall’11,5% al 20 per cento.

Inoltre, l’Organizzazione parigina consiglia di creare degli ammortizzatori sociali per chi non riuscirà ad avere la continuità contributiva richiesta dal nuovo sistema. Ma ciò collide con la già esigua disponibilità di risorse. Dovrebbe quindi essere riabilitata la proposta Boeri di ricalcolo delle pensioni retributive sopra i 3500 euro mensili per la formazione di un fondo da destinare – a differenza di quanto propone lo stesso presidente INPS – a un fondo perequativo intergenerazionale? Non si speculi su assurde lotte ideologiche tra padri e figli, ma sarà difficile procrastinare ad oltranza il rinvio di decisioni probabilmente indefettibili.

Tutto qui? Non si può fare altro?

Nel mese di ottobre l’Australian Centre for Financial Studies ha pubblicato il Melbourne Mercer Global Pension Index, grazie al quale si ottiene una classifica analitica dei sistemi pensionistici di 25 Paesi, assegnando un rating, un voto, a ciascuno di essi.

Il punteggio si basa su tre parametri: adeguatezza, sostenibilità e integrità. L’Italia risulta al 20esimo posto, sopra solo a Indonesia, Cina, Giappone, Corea del Sud e India. Il pessimo posizionamento è dovuto soprattutto al basso punteggio ottenuto dal nostro Paese alla voce sostenibilità.

Al primo posto vi è la Danimarca, seguita subito dopo dall’Olanda. Poi vengono Australia, Svezia, Svizzera e tutti gli altri Paesi. È curioso notare che questi 5 Paesi si affidino consistentemente a schemi di pensioni private – obbligatorie e non – con percentuali superiori al 60 per cento. L’Italia è ferma al 15,7 per cento.

Nessuna pretesa di asserire causazione tra ranking e dati, ma almeno la correlazione potrebbe dar vita a una riflessione seria. Come, d’altra parte, meriterebbe una maggiore attenzione il concetto di scelta razionale dell’individuo che pensi alla sua età post-lavorativa in contrapposizione all’assunto secondo cui lo Stato sarebbe in ogni caso il soggetto più adatto a decidere della nostra vecchiaia.

Alcide De Gasperi si sarà probabilmente stufato di sentirsi citato perennemente sulla differenza tra lo statista e il politico. Il politico – è risaputo – non pensa a come sarà l’Italia nel 2050. Ma è bene che egli sappia che il problema è anche attuale, perché sono ben visibili i nessi tra eccessivi contributi versati e i grigi dati dell’occupazione.<

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