Una proposta: rianimare la domanda con i Certificati di Credito Fiscale

scritto da il 19 Gennaio 2016

Pubblichiamo il primo di due post a cura di Marco Cattaneo. Laureato a pieni voti in economia aziendale (Bocconi 1985) tra il 1985 e il 1994, Cattaneo ha ricoperto cariche nell’area pianificazione, controllo, finanza aziendale e finanza straordinaria presso il Gruppo Montedison. Dal 1995 gestisce fondi e rappresenta primari investitori internazionali in operazioni di private equity e credito strutturato. Ha pubblicato libri e articoli su temi di politica economica, sistemi monetari, valutazione d’azienda, pianificazione e controllo di gestione. Dal 2012 promuove il progetto “Moneta Fiscale / Certificati di Credito Fiscale”, finalizzato a superare le disfunzioni dell’attuale sistema monetario europeo. Collabora a tal fine con un gruppo di studiosi e ricercatori comprendente tra gli altri Biagio Bossone, Massimo Costa, Enrico Grazzini, Stefano Sylos Labini, Giovanni Zibordi. Del team faceva parte il sociologo Luciano Gallino. Con questo post Econopoly intende avviare un dibattito su proposte e soluzioni per superare la grande crisi iniziata nel 2008 –

CERTIFICATI DI CREDITO FISCALE PER RISOLVERE LE DISFUNZIONALITA’ DELL’EURO (parte prima)

di Marco Cattaneo

La troppo timida ripresa dell’economia italiana

I dati preliminari 2015 indicano che il PIL reale italiano è cresciuto dello 0,8%, per la prima volta dopo tre anni di calo (2012, 2013 e 2014). L’aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (DEF) pubblicato il 18 settembre 2015 a cura del Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF) prevede un +1,6% per il 2016 e per il 2017. Istat, Bankitalia, FMI e Commissione Europea sono più cauti, ma condividono comunque l’ipotesi di accelerazione della crescita.

Naturalmente, essersi messi alle spalle la lunga catena di decrementi di PIL è, in sé, una buona notizia. Ma si tratta di ritmi di recupero molto modesti se messi a confronto con il declino (10%) registrato tra il 2008 e il 2014, e insufficienti a riassorbire, o quantomeno a ridurre in misura apprezzabile, il calo di occupazione e l’”output gap” che si sono prodotti in tutti questi anni.

Il potenziale dell’economia italiana è nettamente superiore, e per conseguirlo l’elemento essenziale che manca all’attuale mix di politiche economiche è costituito da azioni di stimolo della domanda decisamente più significative di quelle messe in cantiere dal governo Renzi.

Renzi e il ministro Padoan hanno varato un programma di riduzioni fiscali (IMU e TASI sulla prima casa e successivamente imposte dirette su individui e imprese) distribuito tra il 2016 e il 2017.

L’entità di queste riduzioni è tuttavia modesta, a causa delle maglie strette imposte dai trattati europei. Il Governo sta negoziando la concessione di margini di flessibilità rispetto ai tempi di riduzione del rapporto deficit pubblico / PIL attualmente previsti, ma si tratta di decimali. Voltare definitivamente l’angolo e lasciarsi alle spalle il contesto depressivo in cui l’Italia si trova ormai da sette anni richiede un’azione decisamente più incisiva.

La necessaria azione sulla domanda: attuarla con i CCF

Effettuare politiche espansive della domanda in Italia (e in altri paesi dell’Eurozona) è un problema a causa delle caratteristiche dell’attuale unione monetaria. Una politica espansiva si traduce, in buona sostanza, nell’introdurre nel sistema economico una maggiore quantità di potere d’acquisto, mettendola a disposizione degli operatori che si muovono nell’ambito dell’economia reale: cittadini e aziende. E questa immissione può avvenire diminuendo le tasse, aumentando i trasferimenti o incrementando la spesa pubblica statale diretta.

Il problema è che queste azioni espansive, in un’unione monetaria a cui appartengono diciannove Paesi, non servono dappertutto, o comunque non nella stessa misura. I Paesi dove queste azioni non sono oggi necessarie (o lo sono di meno) vedono quindi negativamente l’espansione dell’indebitamento degli altri, temendo che la crescita del debito crei rischi di default e di conseguenza necessità di salvataggi e/o gravi turbolenze nei sistemi finanziari e bancari dell’Eurozona.

L’alternativa è il finanziamento dei deficit mediante emissione monetaria da parte della BCE. Anche questo crea però una preoccupazione, connessa all’incremento della circolazione monetaria totale (degli euro in mano ai cittadini, in altre parole) nel momento in cui un euro ha potere liberatorio e di soddisfacimento di obbligazioni finanziarie sia nei paesi in cui un determinato incremento del potere d’acquisto è necessario (come l’Italia) sia in quelli in cui non lo è (come la Germania). Il timore è che l’espansione monetaria opportuna per una parte dell’Eurozona possa essere eccessiva con riferimento alle esigenze di altri Paesi.

I CCF (Certificati di Credito Fiscale) costituiscono una risposta e una soluzione a questi problemi.

Si tratta di titoli che danno diritto al loro possessore di conseguire riduzioni di pagamenti altrimenti dovuti alla pubblica amministrazione del paese emittente, a qualsiasi titolo (tasse, imposte, contributi, sanzioni, ecc.).

Vengono a volte definiti “moneta fiscale” in quanto si tratta di titoli validi per pagare tasse e imposte (più precisamente, per ridurre i pagamenti altrimenti dovuti). La definizione di “moneta”, tuttavia, non è del tutto appropriata: si tratta di titoli che, pur essendo espressi in euro, non sono “legal tender” nel territorio dell’Unione Monetaria Europea. Il monopolio nell’emissione di euro, di “legal tender” appunto, rimarrebbe una prerogativa della BCE.

Se non sono moneta legale, i CCF non sono peraltro neanche debito: lo stato emittente si impegna ad accettarli a fronte di riduzioni di pagamenti altrimenti ad esso dovuti, ma non – in nessun caso e in nessuna circostanza – a rimborsarli in euro.

I CCF non sono, quindi, né moneta legale né debito. Sono titoli che incorporano un diritto patrimoniale, e hanno un valore che deriva da tale diritto.

I CCF possono essere concepiti e posti in atto secondo varie modalità tecniche. Qui di seguito si fa riferimento all’impostazione proposta in due libri recentemente pubblicati sul tema (“La soluzione per l’euro – 200 miliardi per rimettere in moto l’economia italiana”, di Marco Cattaneo e Giovanni Zibordi, prefazione di Warren Mosler e introduzione di Biagio Bossone, ed. Hoepli 2014; e l’ebook “Per una moneta fiscale gratuita – come uscire dall’austerità senza spaccare l’euro”, a cura di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Enrico Grazzini e Stefano Sylos Labini, prefazione di Luciano Gallino, ed. Micromega 2015). Molti altri elementi, analisi, articoli e commenti sul tema sono disponibili sul blog “Basta con l’Eurocrisi”, a cura di Marco Cattaneo.

La proposta CCF è stata anche ampiamente illustrata e commentata in un recente rapporto dell’ufficio studi di Mediobanca Securities (“Tide Turns as Recovery Starts”, novembre 2015).

Nei testi sopracitati, i CCF sono concepiti in forma di titoli utilizzabili due anni dopo l’emissione. In pratica, il possessore di un CCF emesso (ad esempio) il 30 giugno 2016 potrà utilizzarlo, illimitatamente, per ridurre pagamenti altrimenti dovuti (per tasse, imposte o a qualsiasi altro titolo) alla pubblica amministrazione italiana in qualsiasi data a partire dal 30 giugno 2018.

Il differimento di due anni serve a evitare che l’utilizzo dei CCF riduca gli incassi dello stato emittente prima che gli effetti espansivi sulla domanda abbiano potuto creare maggior PIL e quindi maggiori incassi fiscali compensativi.

I CCF sono titoli liberamente negoziabili: il diritto allo sgravio fiscale si trasferisce insieme al titolo. Essendo utilizzabili due anni dopo l’emissione, i CCF avranno un prezzo di mercato un po’ più basso del loro importo facciale (ma tenderanno ad avvicinarsi alla pari con l’approssimarsi della data di utilizzo). E’ presumibile che il loro valore corrisponda a quello di un titolo di Stato zero-coupon di pari scadenza.

La proposta è che lo stato italiano emetta, annualmente, un determinato quantitativo di CCF e li utilizzi per una pluralità di fini, tra i quali principalmente:

1) Incremento del potere d’acquisto dei lavoratori a basso reddito, mediante assegnazione di CCF (in pratica, qualcosa di simile agli 80 euro di Renzi potrebbe essere erogato sotto forma di CCF).

2) Riduzione dei costi effettivi lordi di lavoro delle azione: a fronte dei pagamenti per costi di lavoro, tasse e contributi (che continuerebbero a essere versati in euro) ogni datore di lavoro riceverebbe CCF in una percentuale prestabilita.

3) Altre azioni di sostegno della domanda: integrazioni pensionistiche, sussidi di disoccupazione, investimenti pubblici, lavori di pubblica utilità, azioni di politica industriale ecc. Tutte queste iniziative potrebbero essere attivate (o rafforzate), in parte o totalmente, mediante assegnazione di CCF.

L’economia italiana potrebbe quindi conseguire, contemporaneamente, significativi risultati in termini di:

– Rafforzamento della domanda interna;

– Miglioramento della competitività delle aziende (grazie alla riduzione dei costi di lavoro lordi effettivi), evitando quindi che la spinta sulla domanda si traduca nella formazione di squilibri nei saldi commerciali esteri.

Tutto ciò, avverrebbe senza che l’Italia incrementi l’indebitamento da rimborsare in euro, e quindi rispettando la necessità di conseguire una progressiva riduzione del debito che può creare rischi di default e (conseguentemente) di instabilità finanziaria. Per sua natura, un Certificato di Credito Fiscale è un impegno che non comporta obbligazione di rimborso. Di conseguenza, lo Stato emittente non può, in nessuna circostanza, essere costretto al default su un CCF (non è un titolo da rimborsare in euro, e quindi non sussiste il problema di avere o non avere le disponibilità finanziarie con cui rimborsarlo).

Nello stesso tempo, non si verificherebbe nessun incremento di “legal tender”, di moneta che può essere utilizzata per estinguere obbligazioni finanziarie in tutto il territorio dell’Eurozona. Non posso utilizzare CCF italiani per pagare imposte in Belgio, o per effettuare acquisti in un supermercato francese, o per estinguere un debito verso un fornitore tedesco (salvo che la controparte li accetti sulla base del loro valore di mercato, cosa che potrà decidere di fare – ma senza esserne in alcun modo obbligato).

In pratica, i CCF nazionali ripristinano il livello di flessibilità che esisteva con il precedente regime di monete nazionali, senza tuttavia passare per la “rottura” dell’euro e senza violare il monopolio di emissione di moneta “legal tender” (che resta in capo alla BCE).

Ancora sulla natura non debitoria dei CCF

La legge di stabilità 2016 prevede un meccanismo di “superammortamento” per incentivare gli investimenti aziendali: in pratica, le aziende che investono in beni produttivi possono ammortizzare, con validità fiscale, l’importo dell’acquisto maggiorato del 40%.

Naturalmente, il risparmio d’imposta consentito dai maggiori ammortamenti non è debito pubblico, e nessuno si sognerebbe di affermare il contrario. È soltanto un elemento di cui tenere conto nel prevedere le future entrate fiscali (come anche andrà tenuto conto dell’effetto espansivo prodotto dai maggiori investimenti su PIL e gettito).

Ora, se il risparmio d’imposta prendesse la forma di un titolo trasferibile e negoziabile (un CCF) il provvedimento avrebbe con ogni probabilità maggiore efficacia grazie:

– alla possibilità, per le aziende, di monetizzare in anticipo il vantaggio fiscale, cedendolo a terzi prima della data di utilizzabilità;

– al fatto che i CCF avrebbero sempre e comunque un valore, mentre l’ammortamento è utilizzabile solo se l’azienda che effettua l’investimento realizza utili sufficienti. Chi non è certo di conseguirli è riluttante a investire, “superammortamento” o no.

È tuttavia importante notare che, se il risparmio futuro prodotto dal “superammortamento” non può essere considerato debito pubblico, non c’è nessuna logica che lo diventi per il fatto di “incorporarlo” in un titolo e di renderlo cedibile.

Qualcuno potrebbe obiettare che il “superammortamento” potrebbe non essere in pratica sfruttato (per carenza di redditività dell’azienda che effettua l’investimento) mentre il CCF finirà senz’altro per esserlo. Ma se la differenza fosse solo quella, il vantaggio fiscale connesso al “superammortamento” dovrebbe essere considerato debito, al netto di una stima plausibile e prudenziale della quota che potrebbe finire per non risultare utilizzata.

Il punto è che i crediti d’imposta a utilizzo futuro influiscono sulle previsioni di gettito (insieme peraltro ai benefici prodotti dalla maggior crescita del PIL e, conseguentemente, delle entrate fiscali). Ma non possono essere considerati parte del debito odierno.

I CCF consentono di raggiungere le finalità del Fiscal Compact e gli obiettivi dell’Eurosistema

L’Eurosistema è impostato sul concetto che la BCE garantisca i debiti pubblici dei vari Paesi, purché s’impegnino al pareggio di bilancio e a ridurre il rapporto debito / PIL. Questo equivale a dire che la BCE garantisce gli attuali livelli di debito, purché non si incrementino.

Non essendo i CCF debito da rimborsare (lo Stato emittente si impegna solo ad accettarli a riduzione di pagamenti futuri), nessuna garanzia è richiesta alla BCE: il valore dei CCF è assicurato dall’impegno di accettazione dello Stato.

L’introduzione dei CCF integrata con un sistema di “clausole di salvaguardia non procicliche” (vedi sezione successiva) assicura la possibilità di effettuare azioni espansive della domanda aggregata, senza che le garanzie da fornire (da parte della BCE e dell’Eurosistema) si incrementino.

Tutto ciò risolve le attuali disfunzionalità dell’Eurosistema senza rompere la moneta unica, e senza che l’Italia debba chiedere maggiori garanzie o sostegni finanziari a nessuno.

Clausole di salvaguardia per assicurare il conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica

Le proiezioni macroeconomiche esposte nella seconda parte del presente articolo mostrano sotto quali condizioni l’utilizzo dei CCF può accelerare considerevolmente la ripresa dell’economia italiana e, nello stesso tempo, assicurare una rapida riduzione del rapporto debito pubblico / PIL.

L’introduzione dei CCF può essere integrata, peraltro, da un sistema di “clausole di salvaguardia” che assicurano il rispetto dei vincoli di finanza pubblica anche nell’eventualità in cui l’evoluzione della congiuntura economica italiana sia, in determinati anni, peggiore del previsto.

Il concetto delle clausole di salvaguardia è, oggi, adottato nelle interazioni tra governi e Commissione Europea, nel senso che frequentemente si richiede a uno Stato di attuare azioni compensative se un determinato obiettivo (per esempio) di deficit pubblico rischia di non essere conseguito.

Il problema è che queste azioni compensative hanno un impatto prociclico. Essenzialmente consistono in tagli di spesa pubblica e/o in inasprimenti fiscali. Nel momento in cui vengono applicati a fronte di una situazione di debolezza congiunturale, si avvia un circolo vizioso: le azioni restrittive comprimono ulteriormente la domanda, il PIL cala più del previsto e il gettito fiscale anche, vanificando parzialmente o totalmente i benefici sul deficit che le clausole di salvaguardia avrebbero dovuto produrre. Il riequilibrio della finanza pubblica, quindi, viene conseguito (se viene conseguito) solo a prezzo di effetti pesantemente negativi su PIL e occupazione.

L’introduzione dello strumento CCF permette, al contrario, un’applicazione non prociclica delle clausole di salvaguardia. Per esempio, invece di effettuare tagli puri e semplici, determinate spese possono essere sostenute mediante assegnazione di CCF. Oppure, invece di inasprimenti fiscali, possono essere introdotte imposte che prevedono l’assegnazione di CCF ai contribuenti a fronte del pagamento di euro. Si tratterebbe in effetti non di imposizione fiscale ma di conversione forzata di euro in CCF.

Se un’azienda o un cittadino deve effettuare un maggior pagamento fiscale in euro, oppure perde incassi in euro a causa di tagli di spesa pubblica, ma in entrambi i casi a titolo di compensazione gli vengono assegnati CCF (negoziabili e monetizzabili sul mercato), non si trova a subire un danno né patrimoniale né finanziario.

Lo strumento CCF consente inoltre di attuare azioni che possono dare ulteriori importanti contributi al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica. Ad esempio, si può dare al titolare di CCF l’opzione di differirne l’utilizzo, a fronte di un incremento del loro valore facciale in funzione del tempo di differimento (in pratica, un tasso d’interesse riconosciuto sotto forma di maggiore “moneta fiscale”). In questo modo, in situazioni di debolezza congiunturale è possibile ridurre la quantità di CCF che vengono utilizzati, spostando l’utilizzo in avanti nel tempo. Questo aumenta gli incassi fiscali netti in euro nell’anno “debole” (a fronte di una riduzione futura, in periodi che si prevedono più forti sul piano congiunturale).

Un’altra possibilità è collocare sul mercato (in cambio di euro) titoli fiscali: in buona sostanza, CCF di lunga durata, che danno diritto a sgravi fiscali sulla base di scadenze prestabilite. Ciò sposta in avanti nel tempo il fabbisogno di euro per necessità di rimborso del debito pubblico in scadenza.

Il punto chiave è che la disponibilità dello strumento CCF dà allo Stato che li emette enormi margini di flessibilità per gestire le sue esigenze di politica economica in chiave non prociclica, rispettando nello stesso tempo il principio di contenere i livelli di deficit e di debito pubblico da rimborsare in euro, e di ridurre progressivamente quest’ultimo in rapporto al PIL.

Equivale a dire agli altri membri dell’Eurozona: il debito e gli euro in circolazione non si incrementeranno mai oltre i livelli concordati; esigenze specifiche dei singoli Paesi verranno gestite mediante un “succedaneo monetario” a utilizzo interno al Paese stesso. Questo “succedaneo monetario”, il CCF, sarà denominato in euro e avrà un valore di mercato “agganciato” all’euro, ma non avrà natura debitoria e non produrrà quindi potenziali tensioni finanziarie connesse a rischi di default.

(1 – continua)

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