Una pubblica amministrazione formato NBA (e come potrebbero funzionare gli incentivi)

scritto da il 22 Gennaio 2016

Pubblichiamo un post di Giacomo Lev Mannheimer, fellow dell’Istituto Bruno Leoni. Laureato in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul Partenariato Pubblico-Privato (PPP), da praticante avvocato Giacomo si occupa prevalentemente di diritto amministrativo, diritto pubblico dell’economia e diritto della concorrenza. Per l’Istituto Bruno Leoni è autore del Focus “I libri non sono tutti uguali. Il caso dell’IVA sugli e-book” e – con Serena Sileoni – del Focus “Città metropolitane: una nuova tappa di una storia infinita”. Scrive su Leoniblog e collabora con diverse testate online

UNA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE FORMATO NBA

 di Giacomo Lev Mannheimer

Una volta, per descrivere il business model adottato da Eddie Lampert, ceo di Sears (una nota catena di grande distribuzione statunitense), Jonathan Haidt lo paragonò a una squadra di basket che, per migliorare il rendimento dei suoi giocatori, li pagasse in base al numero di canestri fatti da ognuno. Com’è ovvio, una cosa simile non potrebbe mai funzionare: minare il gioco di squadra e la coesione fra i suoi componenti, nel basket come altrove, non è una buona idea. Altrettanto fallimentare si rivelò la scelta di Lampert. Seguendo alla lettera la filosofia di Ayn Rand, rese autonomo ogni dipartimento dell’azienda, attribuendo la totale responsabilità economica di ciascuno di essi al relativo dirigente. Il risultato fu semplicemente disastroso. Cosa c’entra questa storia con la riforma della Pa? C’entra, c’entra.

Ho letto e apprezzato l’articolo “Furbetti del cartellino, perché licenziare in 48 ore non serve a nulla (e cosa fare)”, pubblicato su questi pixel da Francesco Bruno. Rispetto alla facile demagogia con cui, anche negli ultimi giorni, i dipendenti pubblici sono stati dipinti da molti come categoria umana, l’autore ha il merito di riportare la discussione sul piano degli incentivi.

La cattiva notizia che ne consegue è che, come sempre, non esistono buoni e cattivi: chi punta il dito contro la persona, invece che contro il sistema di regole che la circonda, non è meno ottuso di chi pensa di sostituire i politici di professione con “cittadini onesti”. Organizzare una società, purtroppo, è enormemente più complesso. L’altra faccia della medaglia, quella buona, è che l’ultimo film di Checco Zalone non è un documentario, come qualcuno vorrebbe farci credere. E quindi, se è così difficile trasformare i vizi degli uomini in virtù – specie laddove non esista un’idea concordata di quali siano i vizi e quali le virtù – è sul sistema d’incentivi che si può e si deve intervenire.

Tuttavia, bisogna riconoscere che, negli ultimi anni, i tentativi di introdurre meccanismi incentivanti nella Pa sono stati diversi. Certo, molti di questi hanno sofferto – come spesso accade nel nostro Paese – in fase di enforcement; ma, come nel caso dei licenziamenti disciplinari, è difficile sostenere che manchino le norme. Anzi, spesso ce ne sono fin troppe.

Il testo della riforma Madia, in questo senso, dovrebbe dare un ulteriore giro di vite a quelle sul licenziamento nel pubblico impiego e sulla valutazione del personale. Si parla di responsabilità penale per i dirigenti “complici”, di sospensione dal servizio del fannullone colto in flagrante e di rimborso allo Stato del danno d’immagine. Bruno, d’altra parte, sostiene che la strada da percorrere sia una sorta di “responsabilizzazione gerarchica”, per cui parte degli errori venga pagata dai superiori di chi li ha commessi, conferendo ai dirigenti maggiori poteri ma anche disincentivi economici in caso di complicità o di negligenza.

Queste idee, come molte altre ventilate da più parti in tempi passati, partono dalla premessa che per rendere più efficiente il settore pubblico sia necessario introdurvi alcune caratteristiche tipiche di quello privato. È una premessa condivisibile; il problema è che la maggior parte delle organizzazioni pubbliche sono intrinsecamente diverse da quelle private. Senza la proprietà privata, il sistema dei prezzi e un mercato concorrenziale, in cui diverse entità possano “vendere” il medesimo bene o servizio, anche il più sofisticato sistema d’incentivi si rivelerà inutile, quando non controproducente.

Misurare la produttività di una persona addetta a fornire informazioni ai cittadini o di un ufficio adibito a rinnovare carte d’identità non è semplice. Anche nel settore privato esistono moltissime mansioni di cui è arduo misurare la produttività, ma in quel caso è il diritto di proprietà a legittimare qualunque scelta del datore di lavoro. Le conseguenze di un licenziamento individuale – o di qualunque altra misura di carattere premiale o punitivo – si riversano esclusivamente su chi si assume il rischio d’impresa.

Nel settore pubblico, le cose cambiano. Le conseguenze di ogni scelta si riflettono sull’intera collettività: accrescere il potere dei dirigenti significa aumentare la loro discrezionalità rispetto a qualcosa che non è di loro proprietà ma è, appunto, pubblico. La stessa ragione per cui buona parte dei dipendenti pubblici è assunta per concorso dovrebbe condurci a diffidare di soluzioni che accrescano i poteri dei dirigenti.

Come scrisse con grande chiarezza Rocco Todero, “la scelta di licenziare nella pubblica amministrazione non può essere il corollario del riconoscimento della libertà del datore di lavoro di gestire come meglio ritiene la propria azienda, ma deve essere la conclusione (certamente necessaria) di un accertamento al temine del quale l’interesse pubblico al buon andamento dell’ente pubblico risulti in radicale contrasto con la permanenza in servizio del dipendente”.

Dovremmo concludere che non esistono modi di rendere la pubblica amministrazione più efficiente? Ovviamente no. Più semplicemente, dovremmo tenere sempre a mente la storia di Lampert e della squadra di basket, perché ci insegna che la concorrenza non è un processo d’ingegneria normativa top-down, non richiede alcuno stato di polizia e non è nemica della cooperazione.

L’efficienza dentro la Pa non è un miraggio e gli incentivi sono il mezzo giusto per crearla; forse, però, dovremmo iniziare a pensare di introdurre meccanismi di mercato non all’interno del singolo ente, ma nel sistema nel suo complesso. Il fatto che le squadre di basket non paghino i propri giocatori secondo il loro singolo rendimento non rende il basket uno sport poco concorrenziale. Anzi: ciò che lo rende avvincente, così come ogni altro sport, è proprio la competizione. Ma fra diverse squadre, non fra i giocatori della medesima.

Quante “squadre”, oggi, competono per rilasciare la vostra carta d’identità o per gestire il patrimonio immobiliare pubblico? Che incentivo ha una scuola, nel suo complesso, a offrire un servizio migliore di un’altra? Dove potete spostare i vostri contributi previdenziali, se ritenere che l’INPS non li gestisca nel modo migliore? Da chi potete fare intermediare i vostri diritti d’autore, se la SIAE non lo fa come vorreste?

La risposta a tutte queste domande non è necessariamente la privatizzazione di questi servizi, ma potrebbe essere una sorta di liberalizzazione interna alla Pa che includa due elementi fondamentali: un sistema di “prezzi” e la possibilità di fallire. Un esempio emblematico, relativo alla scuola, è quello dei voucher, proposto ormai 60 anni fa da Milton Friedman. Si tratterebbe di fornire alla famiglia di ogni persona in età scolastica un buono da “spendere” per iscrivere il figlio in una determinata scuola, che non avrebbe potere di rifiutare iscrizioni e a sua volta tratterrebbe al suo interno il valore del voucher. In questo modo, le scuole sarebbero incentivate a migliorare la propria offerta formativa, sperimentando soluzioni innovative e vedendo premiati i propri successi. Allo stesso tempo, il sistema resterebbe interamente pubblico e sarebbe garantito un trattamento del tutto paritario a ogni studente, a prescindere dalle condizioni economiche e sociali di partenza.

Lo stesso si può pensare per qualunque altro servizio pubblico. Si potrebbero ad esempio separare organizzazioni pubbliche di “provision” e di “production”, come suggerito dal professor Ugo Arrigo qualche tempo fa. In questo modo, più enti potrebbero produrre lo stesso bene o servizio in concorrenza fra loro, venendo remunerati da (poche) centrali di acquisto a seconda dei risultati raggiunti, ma potendo allo stesso tempo anche fallire. Ogni ente sarebbe così libero di organizzarsi e autodisciplinarsi al suo interno, entro certi limiti, nel modo che ritenga migliore, e a quel punto vi sarebbero sì incentivi alla produttività individuale, senza bisogno di leggi draconiane o controlli su assenteisti e fannulloni. Esattamente come nel settore privato.

Lo stipendio dell’allenatore di Michael Jordan non si basava sul rendimento di quest’ultimo, che non è certo diventato quello che è diventato perché costretto ad andare agli allenamenti. Michael Jordan è diventato Michael Jordan perché voleva vincere, e per vincere aveva bisogno che tutta la sua squadra – i Chicago Bulls – vincesse con lui. Per ottenere una pubblica amministrazione formato NBA serve che ci siano più squadre, che il campionato lo possa vincere una sola di queste, e che quelle che non vincono in qualche modo ci rimettano. Michael Jordan, vedrete, arriverà di conseguenza.

Twitter: @glmannheimer