Lavoro e Jobs Act, ecco perché l’inversione di tendenza non pare essere all’orizzonte

scritto da il 10 Febbraio 2016

Pubblichiamo un post di Marta Fana, dottoranda in economia presso l’Istituto di Studi Politici di Sciences Po, Parigi; Dario Guarascio, assegnista di ricerca presso l’Istituto di economia, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa; e Valeria Cirillo, assegnista di ricerca presso l’Istituto di economia, Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa

L’ITALIA E IL LAVORO: LE CONSEGUENZE DEL JOBS ACT

di Marta Fana, Dario Guarascio, Valeria Cirillo

Nell’intervento in risposta all’editoriale di Luca Ricolfi, in cui è posta in questione l’efficacia della riforma del mercato del lavoro del governo Renzi, il sottosegretario Tommaso Nannicini e il consigliere del premier Marco Leonardi rivendicano gli effetti positivi del Jobs Act in termini di crescita dell’occupazione e, soprattutto, di una maggiore stabilità dei rapporti di lavoro. Le argomentazioni espresse da questi ultimi, tuttavia, risultano porsi in contraddizione con le evidenze riportate nel nostro recente studio “Did Italy need further labour flexibility? The consequences of the Jobs Act”, in via di pubblicazione su Intereconomics – Review of European Economic Policy.

In particolare, gli elementi di criticità riscontrabili nell’argomentazione di Nannicini e Leonardi possono essere sintetizzati come segue. In primo luogo, l’uso di dati non destagionalizzati conduce a un sovradimensionamento dell’occupazione a tempo indeterminato guadagnata nel 2015: al netto della stagionalità, infatti, i nuovi occupati a tempo indeterminato tra gennaio e dicembre 2015 sono 135.000 – non 214 mila come affermato da Nannicini e Leonardi – di cui 32.000 sono da attribuirsi ai primi due mesi del 2015 quando la sola decontribuzione era in vigore.

FIgura 1:  dinamica della quota di occupati a tempo indeterminato e a termine tra il 2014 e 2015

Figura 1: dinamica della quota di occupati a tempo indeterminato e a termine tra il 2014 e 2015

La spinta della decontribuzione all’aumento seppure esiguo dell’occupazione è incontestabilmente rilevante. Basta notare che l’aumento degli occupati si intensifica soltanto all’annuncio del taglio della decontribuzione previsto in Legge di Stabilità per le assunzioni del 2016. Questa evidenza trova conferma nella figura 1 in cui si mostra la dinamica della quota di occupati a termine e indeterminati sul totale dei lavoratori dipendenti: dall’entrata in vigore della riforma del lavoro, il Jobs Act, la componente a tempo indeterminato diminuisce costantemente nei mesi fino a ottobre dello scorso anno.

In secondo luogo, il ruolo delle trasformazioni da contratti a tempo determinato a tempo indeterminato viene identificato come il sintomo di un processo di consolidamento e stabilizzazione dell’occupazione. Tale tesi mostra, tuttavia, alcuni elementi di debolezza. Da un lato, le trasformazioni di contratti non implicano la creazione di nuova occupazione dal momento che si tratta di lavoratori già occupati. Dall’altro, le stesse trasformazioni non sono automaticamente associabili ad una stabilizzazione dei rapporti di lavoro come sembrano suggerire Leonardi e Nannicini.

Osservando i dati del Ministero del Lavoro relativi alla cessazione delle trasformazioni, inoltre, emerge che delle trasformazioni avvenute nel 2012, il 41% è cessato già nel 2014, con un andamento simile per le trasformazioni avvenute nel 2013. L’insieme di questi elementi rende difficile sostenere la tesi di Nannicini e Leonardi secondo i quali ci troveremmo difronte ad una ripresa dell’economia caratterizzata da espansione dell’occupazione stabile. Inoltre, ci sembra lecito ribadire come il contratto a tutele crescenti, esito finale delle trasformazioni, essendo sprovvisto della cosiddetta tutela reale contro i licenziamenti, non fornisce alcuna garanzia di stabilità per il lavoratore. Tutto ciò sommato, la dinamica osservabile oggi non dovrebbe far pensare che le trasformazioni avvenute sin qui possano resistere oltre gli sgravi triennali previsti, soprattutto alla luce di una crescita dell’economia che non si discosta da un intorno di zero.

Non bisogna tuttavia sottovalutare altri aspetti, spesso omessi, che emergono dai dati INPS, “i più adatti a valutare gli effetti del Jobs Act” come dicono bene Nannicini e Leonardi.

Primo, il calo delle collaborazioni, dai dati a disposizione, non trova nessuna corrispondenza con l’aumento dei contratti a tempo indeterminato. A tal proposito, sarebbe opportuno capire se le cessazioni di contratti a progetto abbiano dato luogo a rapporti di lavoro dipendente o se al contrario, questi ex collaboratori siano divenuti oggi dei lavoratori che vengono retribuiti attraverso la forma, estremamente precaria, del voucher.

Secondo, della “battaglia contro le false partite IVA” nulla si può dire se non che il numero di partite IVA aperte nel 2015 non è inferiore a quello del 2014, come mostra la figura 2. Fin qui, di maggiore stabilità sul mercato del lavoro nessun segno. L’insieme degli elementi delineati, quindi, non sembra suggerire il miglioramento quali-quantitativo intravisto da Nannicini e Leonardi.

Figura 2: numero di partite Iva aperte, valori assoluti mensili

Figura 2: numero di partite Iva aperte, valori assoluti mensili

Da un punto di vista strettamente macroeconomico, non è neppure possibile parlare di jobless recovery, cioè di una ripresa senza nuova occupazione. La ripresa, infatti, risulta essere particolarmente debole e fortemente determinata da fattori esterni. Allo stesso tempo, la dinamica strutturale italiana rimane caratterizzata da un pericoloso processo di involuzione che vede ridimensionarsi i settori produttivi, in particolar modo il manifatturiero, ad alto contenuto tecnologico a favore di un terziario che domanda prevalentemente occupazione scarsamente qualificata.

Ed è proprio in questi settori a bassa produttività, come il commercio al dettaglio, trasporto e magazzinaggio; servizi di alloggio e di ristorazione, che i nuovi contratti di lavoro a tempo indeterminato sembrano concentrarsi. Leggendo i dati occupazionali con un occhio alla struttura dell’economia ed alla sua dinamica, dunque, l’auspicata inversione di tendenza – in termini di qualità, quantità e stabilità dell’occupazione – non sembra profilarsi all’orizzonte.

A un anno dall’editoriale di Luca Ricolfi che aprì la strada alla pubblicazione mensile dei dati sul mercato del lavoro, sembra auspicabile che tale attività non soltanto continui, ma si arricchisca di dettagli utili a valutare l’impatto delle riforme, la dinamica del lavoro e della sua qualità.

Twitter @martafana