L’economia collaborativa, la politica e la disuguaglianza nel mercato del lavoro

scritto da il 12 Febbraio 2016

Pubblichiamo un post di Benedetta Arese Lucini, imprenditrice dell’economia 2.0. Dieci anni di esperienza in giro per il mondo, in 8 paesi e 3 continenti. Da qualche anno prova a portare l’innovazione anche in Italia, prima come country manager di Uber, poi come consulente per diversi fondi venture capital e startup –

L’ECONOMIA COLLABORATIVA, LA POLITICA E LA DISUGUAGLIANZA

di Benedetta Arese Lucini

La Commissione Europea per la Comunicazione e la Tecnologia, meglio nota come DG Connect, ha recentemente pubblicato i risultati di una consultazione pubblica nei 27 stati membri, per capire meglio il ruolo delle piattaforme online. Nell’ambito dell’economia collaborativa i risultati sottolineano le seguenti osservazioni:

1 ) Gli operatori di servizi hanno constatato che si stanno spostando sempre di più verso l’utilizzo di piattaforme dell’economia collaborativa;

2 ) Le imprese e i consumatori sono entrambi molto chiari sull’impatto negativo per la crescita di queste piattaforme causato da una regolamentazione incerta;

3 ) La creazione di nuove linee-guida per definire l’ambito di questa economia collaborativa è incoraggiata dalle autorità pubbliche e dal mercato tradizionale;

4 ) La maggioranza dei consumatori ritiene che l’utilizzo delle piattaforme sia facilitato dalle informazioni su diritti, termini e condizioni dell’utilizzo, che sono sufficientemente trasparenti.

Essendo queste conclusioni molto chiare e perfino assodate, come sottolineato dai risultati della consultazione pubblica, possiamo analizzare perché dovrebbero essere promosse anche dalla politica. Infatti, date le forti disuguaglianze che si trovano sul territorio Italiano, il regolatore dovrebbe soffermarsi proprio su nuove politiche di inclusione, che partano dalla regolamentazione dell’economia collaborativa, la sharing economy, come catalizzatore per la crescita.

Morgan Stanley, in una recente analisi, ha concluso che le disuguaglianze hanno avuto un impatto tale da ridurre la crescita, nei paesi sviluppati, fino a 4,7 punti percentuali tra il 1990 e il  2010. Per capire meglio l’effetto su ogni paese, la relazione considera diversi indicatori, che comprendono gli stipendi, l’inclusione nel mondo del lavoro, l’accesso ai servizi sanitari e l’accesso al digitale.

Schermata 2016-02-11 alle 12.05.12

Se guardiamo l’Italia, in questa analisi, siamo in fondo alla classifica, con gravi carenze in tutti gli indicatori ad esclusione della sanità. Mi soffermo su tre numeri: il 26,1% di disoccupazione tra i cittadini di età tra i 15 e 24 anni; il 6,6% della popolazione totale costretta a un lavoro part-time, quindi non in grado di impiegare appieno le proprie abilità; l’accesso a internet limitato al 62%, il minimo fra tutti i paesi Europei.

Partendo dall’accesso a internet, è chiaro che una politica di inclusione nel mondo online, aiuterebbe a diminuire o eliminare le disuguaglianze nella popolazione. Questo perché internet porta trasparenza ai consumatori, con un miglioramento nell’accesso all’informazione. La penetrazione degli smartphone e l’economia delle applicazioni diventano una vera opportunità perché con una piccola spesa si può ormai diventare digitali, diversamente da dieci anni fa, quando l’accesso avveniva solo tramite computer. Questo cambiamento non ha portato soltanto allo sviluppo di nuovi mercati, come quello dell’e-commerce, ma cambiando le abitudini dei consumatori, sempre più abituati alla rapidità delle transazioni, ha anche trasformato il ruolo del lavoratore.

Una eguaglianza maggiore nell’accesso a internet e agli smartphone potrebbe aiutare la crescita della sharing economy, che chiamiamo anche on-demand economy, l’economia del lavoratore a chiamata. E così in molti settori cominceremmo ad aiutare lo sviluppo di un lavoro alternativo a quello subordinato, di un nuovo tipo di remunerazione.

Se osserviamo gli altri due dati, la disoccupazione giovanile e il lavoro part-time, vediamo che in Italia esistono rispettivamente 1,5 milioni e 4 milioni di persone in queste due categorie, solitamente poco rappresentate dalla politica, che non sono in grado di partecipare al mondo del lavoro per com’è strutturato oggi. Invece, la nuova economia collaborativa, non solo può creare dei risparmi notevoli, ma può anche aiutare questi 5,5 milioni di italiani ad abbattere le forti barriere all’ingresso del mondo del lavoro e a diminuire la distanza che esiste oggi dal lavoratore subordinato.

Il lavoro a partita Iva, attraverso le piattaforme di sharing, quindi, diventa un forte aiuto per compensare il lavoro part-time o la disoccupazione, incrementando il reddito di questi professionisti. Una vera opportunità di crescita in Italia nel digitale deve quindi includere delle politiche che aiutino a diminuire queste disuguaglianze, portando sempre più persone online, e aiutandole a usare il digitale per lavorare.

Il testo del nuovo disegno di legge sul lavoro autonomo e il lavoro agile non è attento a questa categoria di on demand workers, lavoratori autonomi che utilizzano piattaforme di collaborazione per aumentare il proprio reddito. Non è necessario creare una nuova categoria di lavoratori, ma diventa indispensabile estendere le tutele assicurative e previdenziali, oltre ad attuare migliori politiche fiscali, tipicamente applicate al lavoratore subordinato. Solo in questo modo si può davvero affrontare il problema della disuguaglianza nel mercato del lavoro, oggi ancora molto rigido, e incentivare la crescita.

Twitter @dettaarese