Se anche l’agroalimentare italiano può andare alla conquista del mondo

scritto da il 01 Marzo 2016

Pubblichiamo un post di Enrico Verga, consulente strategico e istituzionale, Master in International relations all’Università Cattolica del Sacro Cuore, senior analyst a Longitude

L’agroalimentare italiano che si arma e parte per esplorare quel luogo strano chiamato mondo. Mi piace pensare che possa davvero succedere mentre rifletto sul colpaccio dei francesi che approfittano del bisogno tutto cinese di offrire ai bambini latte di qualità, se possibile, soprattutto non avvelenato. Si sa, in Cina di bambini ce ne sono parecchi: 82 milioni circa, dai 5 anni in giù. I neonati fino a 6 mesi che prendono il latte dal seno della mamma sono il 28%. E l’Onu ci dice che la crescita della popolazione cinese resterà stabile fino al 2030.

Ora, il sistema di domanda/offerta e la relativa catena di fornitori in Cina rischiano di non essere adeguati alla domanda estremamente elevata del latte “baby formula”. Domanda che è schizzata alle stelle anche a seguito dei casi di avvelenamento da melamina, nel 2008: uno dei tanti scandali alimentari cinesi che ha ucciso 6 bambini e ne ha avvelenati 300mila.

Tanto alta è la domanda di latte per neonati che il governo australiano ha dovuto metterci un freno: i grossisti cinesi letteralmente svuotavano gli scaffali dei supermercati austrialiani per mandare il prodotto in patria.

Euromonitor ritiene che la domanda cinese per il baby formula raddoppierà nei prossimi quattro anni raggiungendo un mercato dal valore approssimativo di 25 miliardi di dollari. Questa analisi tiene conto di due variabili importanti, che stanno cambiando la realtà demografica cinese: la fine della politica del primo figlio e la percentuale, in aumento, di giovani donne che preferiscono continuare a lavorare ed allattare il proprio figlio con latte artificiale. Questo porterà nei prossimi anni la Cina a divenire il primo mercato mondiale. E per garantire una fornitura di latte di altà qualità le compagnie cinesi ora guardano all’estero.

Bingo, direte voi.

E in effetti, in Europa, la Mengniu, azienda coinvolta nel famoso scandalo, ha spinto molto sull’acceleratore del marketing, rinnovando la sua immagine e definendo una joint venture con la francese Danone, già presente sul mercato cinese.

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Ancora più interessante è il progetto sviluppato dalla Synutra, una compagnia cinese di media grandezza. Il gruppo ha avviato un progetto, valore circa 118 milioni di dollari, per creare un impianto di polverizzazione del latte in Francia. Per farla semplice: i cinesi si sono presentati dal sindaco del paese, hanno comprato un bel terreno e ci stanno costruendo un impianto per polverizzare il latte. Già che c’erano hanno assunto circa 100 esperti locali.

Tutto il prodotto sarà importato in Cina, con soddisfazione reciproca: i cinesi avranno a disposizione un latte di mucche che brucano erba sana, bevono acqua non inquinata e guardano il cielo azzurro (in Cina, specie nelle grandi aree urbane il cielo è piuttosto di un intenso marrone smog e il tasso di mortalità per cancro alle vie respiratorie è schizzato alle stelle negli ultimi 10 anni).

L’Italia, in tutto questo, può dire la sua? Io credo di sì, perché con i nostri alti standard qualitativi siamo potenzialmente in grado di partecipare alla “festa del latte” cinese.
C’è da dire che qualcosa già si è mosso: il gruppo Sterilgarda, basato a Castiglione delle Stiviere (Mantova) e Yili Group, uno dei maggiori produttori cinesi, si sono accordati: il latte italiano sarà confezionato con il marchio Yili e venduto in Cina.

Il caso francese resta tuttavia esemplare. Ecco perché andrebbe presa in considerazione l’opportunità di affrontare seriamente qui da noi l’annoso problema della bassa valorizzazione economica del latte di qualità (magari anche sul versante dei prodotti caseari), a tutto vantaggio dei produttori.

Quindi, la classe media cinese potrà contare sul latte italiano?

Ho pensato di illustrare lo scenario transalpino a Francesca Picasso, vicepresidente Nord Italia Giovani di Confagricoltura. “Quello che dovrebbe essere mutuato dal progetto francese, però, è l’approccio, sia che si parli di latte in polvere che di prodotti d’eccellenza: cioè creare una partnership straniera disposta anche a investire per finalizzare la produzione”.

L’Italia si caratterizza per prodotti agroalimentari d’eccellenza che dobbiamo continuare a produrre ma soprattutto imparare a vendere attraverso politiche di marketing legate al feeling con il territorio di provenienza e a una profonda conoscenza delle opportunità e dei mercati finora inesplorati. In questo i francesi ci battono (vorrei auspicare, solo per ora). Facciamo l’esempio del “terroir”, concetto legato alla produzione vinicola. Con una singola parola i cugini ti vendono un’intera esperienza, generazioni di viticoltori, tradizioni, culture.

Anche ai cinesi, come ai ricchi Paesi del Golfo o agli americani, noi italiani non dobbiamo vendere un prodotto, ma un’esperienza. Nonostante la crisi internazionale i prodotti d’eccellenza trovano sempre una collocazione nelle fasce sociali più alte. E qui l’Italia ci casca precisa. Abbiamo tutte le doti necessarie a produrre qualità.

“Quello che ci insegnano questi progetti di altri paesi – mi ha detto ancora Francesca Picasso – è che servono un nuovo approccio, una minore diffidenza nei rapporti a tutti i livelli,  una mentalità aperta all’aggregazione, all’utilizzo di professionalità esterne al sistema, capaci di indirizzare e accompagnare in modo efficace e duraturo i progetti. In sintesi, una cultura imprenditoriale davvero rinnovata”.

Ecco, quindi, da dove dobbiamo ripartire. E vendere il latte ai cinesi sarebbe un ottimo inizio.

Twitter @EnricoVerga