Il TTIP, gli arbitrati (secretati) dell’Italia e l’asso nella manica: un Tribunale permanente

scritto da il 16 Marzo 2016

Pubblichiamo un post di Andrea Festa, dottore di ricerca in economia e funzionario dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, autore di pubblicazioni su tematiche di economia e politica fiscale. Collabora con lavoce.info e nelMerito. È inoltre autore dei romanzi La calunnia (2014), Giudizi universali (2008) e del racconto Il futuro alle spalle (2005). Le opinioni espresse in questo articolo sono quelle dell’autore e non impegnano l’Amministrazione di appartenenza

Nell’ambito dei negoziati sul TTIP, la previsione di un meccanismo di protezione degli investimenti (ISDS) ha destato obiezioni tali da spingere la Commissione europea a proporre l’istituzione di un Tribunale permanente con lo scopo di superarle. Sollevandone però altre.

Uno degli aspetti più controversi del negoziato per la creazione di una zona di libero scambio UE-USA (Transatlantic-Trade and Investment Partnership, TTIP), che lo scorso febbraio ha visto concludersi il dodicesimo round, è l’introduzione di un meccanismo di protezione degli investimenti (Investor-state dispute settlement, ISDS) che consente di chiamare in causa gli Stati davanti a un arbitrato internazionale nel caso in cui i governi adottino politiche ostili agli investimenti delle imprese.

Negli anni, a causa del crescente numero di dispute, si sono evidenziati i limiti di tali strumenti. Innanzitutto il deficit di legittimazione e trasparenza, poiché contenziosi in cui sono in gioco questioni di pubblico interesse, come politiche sociali o ambientali, vengono decisi da arbitri scelti dalle parti, in udienze a porte chiuse e con documenti inaccessibili. Oltretutto, queste decisioni sono inappellabili e foriere di giurisprudenza incostante, anche perché le regole da far applicare variano in base agli accordi commerciali e sono ambigue esse stesse, per tacere dei conflitti di interesse degli arbitri e dei costi dei procedimenti.

Sul punto è emblematico il caso dell’Italia che, nel silenzio generale, ha in essere quattro cause dinanzi all’arbitrato della Banca mondiale (International Centre for Settlement of Investment Disputes, ICSID), i cui dettagli sono secretati. Un primo ricorso, datato febbraio 2014, è stato intentato dalla società belga Blusun S.A. e investitori franco-tedeschi, il secondo risale allo scorso agosto per opera della Silver Ridge Power, filiale olandese di una multinazionale statunitense, mentre gli ultimi due ricorsi, rispettivamente di settembre e dicembre 2015, sono opera della lussemburghese Belenergia S.A. e dalla belga Eskosol S.p.A., società riconducibile alla Blusun S.A..

In sostanza questi contenziosi chiamano in causa il taglio degli incentivi sulle energie rinnovabili contenuti nel decreto Romani del 2011 e nel decreto spalma incentivi del 2014, e sono stati possibili grazie alla ratifica del Trattato sulla Carta dell’energia che prevede la possibilità di ricorrere a meccanismi ISDS. L’Italia è stata citata in base alle norme del Trattato che sanciscono il principio dell’equo trattamento e la tutela dell’investitore a fronte di cambiamenti improvvisi nelle condizioni che avevano determinato un investimento nel settore.

Peraltro, la soluzione dell’arbitrato internazionale è stata incentivata indirettamente proprio dall’Italia, che all’epoca della ratifica aveva attivato la clausola ne bis in idem per impedire che sulla stessa disputa emergessero due giudicati: sentenza domestica e lodo internazionale. E così, anziché affidarsi ai tribunali italiani, gli investitori stranieri hanno direttamente intrapreso la strada dell’arbitrato internazionale, mentre a inizio anno si è registrato il recesso dell’Italia dal Trattato sulla Carta dell’energia.

I rischi derivanti dai meccanismi ISDS sono essenzialmente economici, poiché le richieste di risarcimento sono milionarie e gli stessi procedimenti arbitrali sono dispendiosi. Non va sottaciuto però il rischio politico che si manifesta se la tutela dell’interesse privato prende il sopravvento su quello pubblico. Sul punto si ricorda l’arbitrato tra la Vattenfall e la Germania, a seguito della decisione tedesca di rivedere le politiche in materia di energia nucleare dopo gli eventi catastrofici di Fukushima nel 2011 e la conseguente lite arbitrale con la multinazionale svedese i cui dettagli, per volontà delle parti, sono inaccessibili al pubblico.

Sulla scorta di tali esperienze, alcuni Paesi cominciano a limitare la possibilità di ricorrere a meccanismi ISDS o a terminare accordi commerciali che li contenevano, mentre Paesi come il Brasile non aderiscono a intese commerciali che contengono clausole ISDS per non accrescere le tutele disponibili per le imprese straniere rispetto a quelle locali né ostruire il diritto di legiferare. D’altro canto, in questo modo le imprese locali che investono all’estero potranno contare solo sulla protezione diplomatica e sul contenzioso tra Stati.

In questo quadro, per rispondere alle obiezioni dell’opinione pubblica evitando l’eliminazione tout court di questi meccanismi, nell’ambito dei negoziati sul TTIP la Commissione europea ha proposto, per le dispute bilaterali, di sostituire l’ISDS con un Tribunale permanente per l’investimento, con primo grado e appello, costituito da giudici scelti in numero eguale tra le nazionalità dell’UE, degli USA e di paesi terzi, assegnati ai contenziosi in modo casuale e a rotazione, con la possibilità di esperire un tentativo di conciliazione e una maggiore trasparenza mediante sedute e documenti accessibili al pubblico.

L’obiettivo è conferire maggiore legittimazione alle sentenze e tutelare il diritto di legiferare nel pubblico interesse anche a detrimento delle aspettative di profitto degli investitori. La scelta casuale dei giudici, anziché la ricerca di volta in volta dei migliori profili di arbitro, consentirebbe pure un risparmio di risorse. Da questo punto di vista appare positiva anche la previsione di tetti di spesa nelle spese giudiziarie quando l’investitore coinvolto è una PMI.

Questa articolata proposta è oggetto di negoziato con gli Stati Uniti, che però hanno appena siglato il Trans-Pacific Partnership – il corrispettivo del TTIP nell’area del Pacifico – senza prevedere alcun Tribunale permanente. A parte ciò, essa non incontra unanime apprezzamento per diversi motivi.

Intanto, la compatibilità di un Tribunale del genere con la legislazione UE e le prerogative della Corte di giustizia europea non è pacifica, sebbene la recente intesa commerciale con il Vietnam preveda già un meccanismo per la soluzione delle controversie sugli investimenti simile a quello proposto agli Stati Uniti, superando lo scrutinio dei giuristi della Commissione. Anche la desiderabilità politica di questo strumento non è esente da critiche, poiché la tutela degli investimenti serviva originariamente alle imprese occidentali impegnate in Paesi meno sviluppati e stabili. La necessità di trasporre il modello nell’accordo tra UE e USA, con livelli di giurisdizione domestica comparabile quanto a rispetto dello stato di diritto, risulta meno intuitiva.

Inoltre, se da un lato la presenza di un appello accrescerebbe la consistenza della giurisprudenza, dall’altro lato dilaterebbe i tempi del giudicato e finirebbe col ricalcare quanto accade nei vari gradi di giudizio delle giurisdizioni nazionali che si vogliono saltare. In aggiunta, il concetto di investimento tutelabile non appare chiaramente collegato al contributo allo sviluppo dello Stato ospitante, nonostante sia da valutare positivamente il tentativo di esplicitare i casi che costituiscono una violazione dell’obbligo di equo trattamento degli investitori, attenuando l’interpretabilità degli accordi in sede giurisdizionale.

Infine, per quanto riguarda l’apprezzabile volontà di incrementare la trasparenza dell’arbitrato, bisogna precisare che le regole alla base si rifanno alle UNCITRAL Transparency Rules che non escludono la possibilità di secretare informazioni e tenere in privato le udienze. Come sta accadendo con l’Italia.

Twitter @andreafesta_af