Il caso Firenze: non sarà il protezionismo a tutelare e far crescere il Made in Italy

scritto da il 20 Marzo 2016

Quando la recessione colpisce un’economia non è mai facile rialzarsi, in Italia così come altrove. Tra le ricette anti-crisi più popolari, rientrano le richieste di una maggiore tutela delle imprese nazionali o locali. In un contesto globalizzato emerge la paura nei confronti del libero commercio e la successiva tentazione di “aiutare” gli operatori territoriali nella competizione internazionale, con l’intento di proteggere il nostro “Made in”.

In questa visione protezionistica si può inserire (per certi versi) un regolamento – che ha fatto discutere nelle ultime settimane – approvato dal Comune di Firenze lo scorso 18 gennaio, avente lo scopo di tutelare il decoro del meraviglioso Centro Storico cittadino, patrimonio UNESCO. Tra le varie misure previste, si legge che:

“È vietato l’insediamento di nuove attività (anche in caso di trasferimento dall’esterno del Centro Storico) di:

  1. a) commercio al dettaglio in sede fissa dei generi appartenenti al settore alimentare;
  2. b) somministrazione di alimenti e bevande;
  3. c) artigianali/industriali di preparazione e/o vendita di prodotti alimentari.”

Tra le condizioni richieste per ottenere la deroga a tali divieti e poter quindi aprire un nuovo esercizio tra quelli sopraelencati  “devono essere posti in vendita o somministrati prodotti di filiera corta e/o comunque tipici del territorio e della tradizione storico culturale della Città di Firenze e della Regione Toscana, secondo la disciplina stabilita dalla Giunta, che individua anche le relative deroghe, da adottarsi entro 30 giorni dall’entrata in vigore del presente Regolamento”. Queste condizioni riguardano anche le attività già in esercizio che dovranno uniformarsi entro 3 anni, ad eccezione delle categorie di cui alla lettera b (ristoranti, bar etc.).

L’8 marzo la Giunta comunale ha fissato nel 70% la quota di prodotti – a filiera corta o del territorio toscano – obbligatoria per ottenere l’autorizzazione amministrativa necessaria per aprire il nuovo esercizio. Sono previste delle deroghe a tale soglia che devono essere autorizzate da un’apposita commissione.

Lasciamo da parte le forti e discutibili misure proibizionistiche contenute nel regolamento (servirebbe un altro post) e focalizziamo l’attenzione sulla scelta di privilegiare la vendita o la somministrazione di prodotti toscani, a tutto vantaggio dei produttori locali. Nonostante le questioni e gli scopi siano diametralmente opposti, la fattispecie ricorda un po’ nella logica le proteste contro l’eliminazione dei dazi per l’importazione di ulteriori 35 mila tonnellate annue di olio d’oliva tunisino decisa dal Parlamento Ue.

Le intenzioni sottostanti a tali forme di protezionismo sono facilmente intuibili: tutela del Made in Italy, salvaguardia della qualità dei prodotti, protezione dell’occupazione nostrana etc. Cerchiamo però di capire se tali intenzioni possano essere giustificate da effetti positivi sull’economia nazionale o locale.

Miopi illusioni protezionistiche

Protezionismo, in economia, significa proteggere la produzione interna di un Paese dalla competizione estera, con una strategia che non vede di buon occhio le importazioni.

Proviamo ad immaginare un mondo in cui ci sia più protezionismo e commisuriamo questa visione ipotetica (non troppo ipotetica viste le notevoli restrizioni al libero commercio) con la realtà toscana. Guardando questi dati forniti dalla Regione possiamo constatare che, nel 2013, la bilancia commerciale è stata in attivo, con le esportazioni che hanno superato le importazioni. Un export regionale da circa 32 miliardi di euro (import di poco superiore ai 21 miliardi), che colloca il territorio nella top 5 italiana.

Scrutando dati più recenti e maggiormente afferenti al regolamento adottato dal Comune di Firenze, si può osservare che il valore dell’export toscano nel settore agroalimentare è stato pari a 1,8 miliardi di euro nel 2014. Numeri importanti.

Facciamo un esempio ancora più concreto, il vino, tra le eccellenze della regione, che nel 2015 ha sfiorato un export storico da 1 miliardo di euro. Dal 2003 si è avuto un aumento del 102% nelle esportazioni del prodotto, con incrementi vertiginosi dell’ultimo anno negli Usa, in Canada e in Cina.

Il prodotto avrebbe potuto avere una crescita del genere senza i canali della globalizzazione o con forti restrizioni al libero commercio? Facendo il giochino di cui sopra, chi ci perderebbe in un mondo più tendente al protezionismo? O chi sarebbe svantaggiato se il Canada decidesse di limitare le importazioni di vini italiani o di imporre particolari dazi sul prodotto? O se il Messico decidesse di privilegiare la sua “filiera corta”? Regioni di eccellenza come la Toscana soffrirebbero terribilmente.

Ecco perché sarebbe auspicabile una spinta anche daii governatori locali al free trade, ne trarrebbero solo vantaggi. Che valore avrebbe il Made in Tuscany se confinato al territorio regionale o nazionale? L’apertura al commercio internazionale è un win-win game, soprattutto per un brand potentissimo all’estero come quello toscano/fiorentino.

Inoltre, limitare la competizione per “proteggere” (favorire) gli operatori locali rischia di comportare un calo di produttività degli stessi (se cala la competizione, ho meno incentivi per migliorare la produttività senza perdere in qualità), nonché effetti sgradevoli per i consumatori che sono i maggiori beneficianti delle importazioni (meno concorrenza=prezzi maggiori che incidono notevolmente sulle famiglie meno abbienti).

Il regolatore quando cerca di limitare la libera iniziativa privata provoca quasi sempre delle storture. Si legge all’art. 7 del regolamento citato che “Sono vietate  inoltre, le (…) a) attività commerciali, artigianali/industriali, che preparano e/o vendono pizza, esercitate in forma esclusiva o prevalente. E’ possibile la vendita accessoria di pizza se il prodotto non viene pubblicizzato in maniera percepibile all’esterno del locale (vetrina, insegna, altro mezzo pubblicitario); “.

Come dire, per la pizza andate a Napoli.

Il protezionismo non paga

Si è soliti sentire – in dichiarazioni politicamente trasversali – che qualora le nazioni estere concedano favori alle loro imprese nelle forme di sussidi o di dazi, questo dovrebbe indurci a fare altrettanto per proteggere le nostre aziende.

Solo un esempio concreto (per una lettura accademica, invece, si veda qui a mo’ di esempio).Tre anni fa la Commissione Europea  mostrava la sua preoccupazione per i costi che il protezionismo dei Paesi extra-UE imponevano alle imprese europee. Tra gli Stati sotto accusa di protezionismo il Brasile e le sue politiche tendenti ad ostacolare la competizione internazionale nei settori dell’auto, della tecnologia e in tanti altri, con evidenti benefici per le imprese brasiliane.

Tre anni dopo il Brasile sta vivendo una recessione molto pesante, per molte ragioni, ma sicuramente anche a causa della fallimentare e costosa politica di sussidi.

Come diceva Milton Friedman nel suo “Free to choose”, non dovremmo preoccuparci noi di importare prodotti a basso costo poiché sussidiati, né essere invidiosi dei dazi altrui. Semmai sarebbero i cittadini dei Paesi con tendenze protezionistiche a doversi seriamente preoccupare a causa delle maggiori tasse che pagheranno per finanziare i sussidi o dei maggiori prezzi al consumo che pagheranno a causa degli ostacoli economico/burocratici imposti alle importazioni dall’estero.

Ci sono infiniti modi per tutelare, promuovere ed espandere l’eccellenza del Made in Italy nel mondo, senza dover cedere alle seducenti (ma dannose) sirene protezionistiche.

 Twitter @frabruno88