L’economia dei fattorini non è sharing economy, vi spiego perché

scritto da il 21 Novembre 2016

Pubblichiamo un post di Alessandro Notarbartolo, fondatore (2013) del social network Tabbid.com, piattaforma che opera nel mercato dei microlavori. Alessandro vive a Milano e ha 42 anni. Ha da sempre la passione per il mondo social e con il tempo ha acquisito gli skill necessari approfondendo le sue competenze in Marketing ed Economia europea presso l’Università Statale –

Solo pochi giorni fa sia i media che i canali social hanno dato ampio risalto alla notizia del primo sciopero della sharing economy. Ci si riferiva a Foodora, ormai diventato un vero e proprio caso, che vedeva la sua forza lavoro, ovvero i fattorini, scioperare in piazza a Torino per le condizioni contrattuali a loro riservate.

Senza entrare nel dettaglio della protesta dei rider, che di fatto rappresentano una novità nell’ambito delle figure lavorative, è che Foodora non è sharing economy.
La consegna a domicilio di pasti o altro rientra in tutte quelle attività commerciali che offrono il servizio di delivery mediante l’utilizzo dei cosiddetti fattorini, nel caso di Foodora o altri player del settore, attraverso delle piattaforme tecnologiche. Mentre aziende come Airbnb o Blablacar (soprattutto in origine) sono dei veri esempi di sharing economy in cui le persone condividono un bene messo a disposizione di tutti a fronte di un compenso economico. Va da sé che per la natura espansionistica e la grande scalabilità di questi servizi ormai il modello di sharing ha assunto altre forme, che nulla tolgono alla genuinità del modello originario.

In particolare in Italia, sentiamo parlare spesso di sharing economy ma di fatto la maggior parte delle piattaforme attive sono più orientate verso un’economia on demand, a chiamata, dove un soggetto richiede un servizio attraverso una piattaforma web che funge da vero e proprio “instradatore” di richieste. L’economia on demand detta anche GIG Economy rappresenta la vera novità del nostro tempo di cui poco si parla ma che di fatto è diffusa nella rete e offre la possibilità di generare degli extra guadagni che mai si sarebbero potuti creare con l’economia tradizionale.

Le persone si mettono a disposizione di altre persone per l’esecuzione di piccoli lavori, dalla consegna (vedi Foodora, ma anche Just Eat, Deliveroo e da poco UberEats) fino al disbrigo di piccole pratiche amministrative a fronte di un compenso economico che di solito viene stabilito da chi richiede la prestazione.

Anche nel caso della GIG economy molte sono le zone di ombra. L’economia dei lavoretti (questo è il significato di GIG) sarà presto fonte di nuove polemiche che si baseranno soprattutto sul regime fiscale e sulla “dichiarabilità” del reddito extra percepito da chi si propone per eseguire i servizi. Il recente Jobs Act e l’art. 2222 del Codice Civile regolamentano ampiamente questo tipo di prestazioni fornendo tutta una serie di requisiti e strumenti che sono già utilizzati e rodati, ma purtroppo non tutti sono a conoscenza della legalità della prestazione occasionale tra privati che nell’ideale collettivo rappresenta una pratica atta a generare il “nero”.

Gig economy o sharing economy sta di fatto che la nostra attuale situazione economica è di fronte ad un cambiamento epocale che seppur lento e a tratti osteggiato, vede la creazione da un lato di un mercato dei lavoretti in forte espansione e dall’altro la nascita di nuove figure lavorative come i rider delle consegne di cibo a domicilio.

Twitter @notarbart