L’industria 4.0 e il futuro dell’occupazione, ovvero un uomo e un cane

scritto da il 05 Dicembre 2016

“L’industria del futuro avrà solo 2 dipendenti: un uomo e un cane. L’uomo sarà li per nutrire il cane. Il cane sarà lì per evitare che l’uomo tocchi qualcosa” (Warren Bennis).

Il termine industria 4.0 si riferisce a una combinazione di numerose innovazioni, nell’ambito della tecnologia digitale, che stanno raggiungendo la maturità evolutiva in questo tempo.

Tra le tecnologie che fanno parte di questo ecosistema possiamo includere: robotica avanzata, intelligenza artificiale, sensori evoluti, cloud computing, internet delle cose, acquisizione e analisi dei dati, fabbricazione digitale (includendo la stampa 3d) software Saas (software-as-a-service), nuovi modelli di marketing, smartphone e simili piattaforme mobili, piattaforme che utilizzano algoritmi per guidare veicoli a motore (strumenti di navigazione, app di condivisione di guida, servizi di consegna /pony express, e veicoli autonomi) e la conseguente integrazione di tutti questi fattori nella catena del valore, condivisa da più compagnie sparse in differenti in differenti nazioni e continenti.

Sulla carta l’industria 4.0 è il balsamo per tutti i mali della società moderna occidentale (in ordine sparso):

1- Miglioramento dei processi produttivi,

2- Aumento dell’interazione tra cliente/consumatore e produttore (sia sulla filiera B2b che B2c),

3- Efficientamento energetico,

4- Aumento dell’occupazione (sic!) & vittoria elettorale assicurata per i politici che creano occupazione in questo modo,

5- Velocizzazione del reshoring (il processo per cui le aziende occidentali torneranno nei loro paesi di origine),

6- Diminuzione dei costi produttivi, aumento dei margini,

7- Moltiplicazione dei P&P (Pani e Pesci, attività svolta in passato, si dice, da una sola persona, ora sarà messa a sistema) etc…

Prima di eviscerare i singoli punti di cui sopra, facciamo un breve riassunto esemplificativo per i non addetti al lavori: 3 sono gli elementi principali sulla industria 4.0

1- Completa digitalizzazione di tutte le operazioni della azienda: sia verticalmente (l’intera gerarchia) sia orizzontalmente quindi l’intera filiera (collegando fornitori, partner, distributori che trasmettono e condividono dati tra di loro senza frizioni o blocchi).

2- Ridefinizione di prodotti e servizi: integrati con software e hardware traccianti per migliorare l’esperienza del cliente (la famosa Internet of Things che parte dai più “primitivi” chip Rfid passivi fino alle soluzioni blockchain).

3- Interazioni simbiotiche con il cliente. Sviluppando nuovi processi, prodotti e servizi viene a crearsi un’intera catena del valore altamente reattiva e spesso proattiva che permette un rapporto quasi simbiotico di scambio dati tra il consumatore e il produttore (ancor più sinergico nel B2b). In pratica il cliente (o consumatore nella catena consumer) esprimendo opinioni, giudizi e in generale feedback (o autorizzando gli strumenti soft/hard di tracciamento in modo che facciano reportistica automatica) sarà generatore di dati (moltiplicati su scala mondo parliamo di Big Data) per “aiutare” le aziende a definire meglio i prodotti, aggiungere aggiornamenti etc.

C’è un anello debole in questa nuova rivoluzione industriale: l’uomo (del cane parleremo dopo). I dati che ogni azienda deve acquisire, valutare e valorizzare sono in continua crescita. Una volta innescata la industry 4.0 saranno ancora di più. In uno studio della PWC si evidenzia come il fattore umano nell’analisi e valorizzazione dei dati sia uno delle voci più importanti di ritardi, errori o perdite di quote mercato.

La buona notizia è che grazie a questo nuovo ecosistema (la industry 4.0 come spiegherò tra poco è un ambiente digitale integrato che ingloba l’azienda, non uno strumento che viene inglobato nell’azienda) il rischio di danni, incidenti o generalmente problemi derivati dall’uomo potranno essere drasticamente diminuiti (potrebbe preoccuparvi sapere il come…)

Vi sono delle sfide, rischi e opportunità che il tessuto imprenditoriale italiano delle Pmi, ma anche delle grandi aziende, deve valutare (in effetti questo ragionamento vale per il resto del mondo).

A) Miglioramento dei processi produttivi

Perché la industria 4.0 divenga realtà deve evolversi un intero ecosistema. La prima sfida è la creazione del sistema. Ecosistemi giganti, digitalmente parlando, che ospiteranno ogni utente che voglia “fondersi/integrarsi” con esse. Due realtà già in movimento sono GE e Siemens. Entrambi attive a creare delle piattaforme che possano permettere ad ogni singolo utente (industria/compagnia) di fare plug & play (concetto mutuato dal settore gaming, in pratica inserisci la spina e gioca).

La creazione di questi ecosistemi implica un’intera realtà (quelli che sono i vecchi distretti industriali, per esempio) che possa entrare in simultanea nello stesso ambiente. Senza non funziona. Immaginate, per semplificare, l’ecosistema creato da Apple dove i Mac Air, gli iPhone, Watch, imiononnoincariola sono perfettamente sincronizzati. Se siete fuori, oppure, mio dio, osate usare un altro device (tipo i fumanti Note 7 di Samsung, quelli che “accendi un caminetto in aereo senza fiammiferi”) siete fuori e stop.

La sfida?

E qui si pone un potenziale scoglio legato all’italianità.

L’individualismo che connota le aziende italiane, ancor di più le Pmi, è elemento manifesto nel tessuto industriale italiano. Conoscendo quanto è forte la mentalità italiana del “faccio tutto io” oppure del “so tutto io”, che pervade ampiamente le Pmi della penisola, viene difficile pensare che tutte queste realtà siano pronte a “entrare” in un sistema di totale condivisione.

Specialmente con la crisi attuale, dove, inutile negarlo, ogni azienda cerca di fare le scarpe al suo fornitore, al suo cliente o al suo competitor (ritardo dei pagamenti, tentativi di acquisizione di fonti di prodotto scavalcando l’intermediario/fornitore, acquisizione coatta di clienti tramite acquisto dei commerciali etc..) è veramente sfidante pensare che un imprenditore sia disposto a cedere, bene inteso in una teorica sicurezza dei dati, tutte le sue informazioni sensibili ad un ecosistema.

B) Aumento dell’interazione tra cliente/consumatore e produttore (sia sulla filiera B2b che B2c)

Chiunque decida (come cliente B2b o consumatore finale) di comprare prodotti o servizi industry 4.0 sarà nel sistema.

Non parlo di cose stupide alla grande fratello (quello di Orwell non quello dei tizi chiusi in casa!). Parlo di sistemi che sapranno tutto quello che il cliente vuole in tempo reale. Una cosa simile in piccola scala già succede con le piattaforme social: come credete che Facebook sappia che pubblicità mettervi sotto il naso (in gergo retargeting)?

Il futuro del retail sarà quello immaginato da Minority report (se volete un film) o dalla stragrande maggioranza di scrittori di fantascienza Hard (inteso come tecnica, non parlo di porno). Facebook lancerà una banca perché possiederà abbastanza dati per decider se darvi prestiti o meno.

Già nel 2014 si discuteva che tipo di banche saranno Facebook, ma anche Amazon, Apple etc. Integrando questa visione a quello che spiego della industry 4.0 immaginate cosa significa. Per le aziende un fattore di previsione di trend, interessi, manutenzione mai eguagliati nella storia dell’uomo. Per le aziende clienti (se B2b) o consumatori, una totale apertura verso l’esterno (pur, come promettono i guru dell’industry 4.0, seriamente vigilata!). Non vi preoccupate dei vostri dati. Non è mai accaduto che un’organizzazione complessa sia stata violata e i suoi/vostri dati più intimi rubati (beh, oddio se escludiamo Talk talk per la telefonia, Yahoo per le ricerche in rete, Apple per i vostri ricordi, National security agency per le agenzie di intelligence etc..).

C) Efficientamento energetico

Questo in vero è uno dei punti che preferisco (sul serio). Con una minor entropia (causata da operai e personale umano, sic!) ogni impianto aumenterà la precisione nella distribuzione e utilizzo delle risorse energetiche. Ergo una decrescita della domanda di energia e una perfetta prevedibilità (ergo un impatto positivo per l’ambiente, posto che la totalità dell’energia prodotta provenga da fonti rinnovabili, che abbondano).

D) Aumento dell’occupazione e politica elettorale

Qui abbiamo qualche criticità. Andiamo con ordine. La potenzialità di produzione a basso costo (per unità) ed elevata precisione (grazie al sistema) porterà molte aziende, stando a quello che spiega una analisi di Boston Consulting (BCG), ad aprire impianti nel mondo occidentale. Un tema questo che si lega al concetto di reshoring, che spiegherò tra poco. La cosa è positiva? Certamente per i cittadini occidentali significa posti di lavoro e, con un potenziale tempo di addestramento della forza lavoro più breve, un raggio di potenziali persone assumibili più amplio (ovvio si parla ancora in linea teorica dato che dobbiamo vedere come la industry 4.0 si evolverà concretamente).

Questi aspetti sono positivi? Certamente, ammesso che le associazioni di categoria o sindacati (operai, metalmeccanici etc..) siano pronti ad accettare che i posti di lavoro creati saranno molti meno che in passato, con un mercato del lavoro fluido (tempo indeterminato scordatevelo).

La industry 4.0 implica una valorizzazione delle risorse umane disponibili e una loro ricollocazione su soluzioni maggiormente performanti che permettano una minor formazione (grazie, come menzionato, all’evoluzione dei sistemi 4.0). Questo aspetto appare positivo per l’industria ma apre una serie di critiche posizioni nella forza lavoro. Scalzata da una posizione di “rendita” derivate dal know-how personale c’è il rischio che i maggiormente consci, tra le risorse umane, possano opporsi a questa rivoluzione (luddismo 4.0?).

È quindi plausibile che dall’interno della azienda possa aver inizio una serie di “sabotaggi” da parte del personale, che ritiene questa nuova tecnologia nemica. Uno scenario questo molto plausibile, che già in altre nazioni, ha visto i dipendenti di aziende “combattere” contro l’automazione delle catene di produzione (battaglia persa dagli umani a favore dei robot).

Un’analisi interessante in merito è quella di Elizabeth RosenzweigYour Employees’ User Experience Should Be a Strategic Priority”.

E) Velocizzazione del reshoring

Trump ha annunciato che riporterà le aziende americane in America. Del tipo chi è scappato a produrre in Cina, India o altre nazioni a basso costo del lavoro (offshoring), avrà la possibilità/dovrà tornare. L’idea è intrigante e non nascondo che possa aver avuto un grande impatto sulle elezioni. Tuttavia, come spiega chiaramente questa analisi, parlando di industry 4.0 le cose non stanno come Trump immagina. Ci saranno industrie americane (o europee) che tornano nei loro paesi di origine? Sicuramente, magari con qualche facilitazione fiscale che non guasta mai. Saranno garantiti i livelli occupazionali che erano presenti in precedenza? Nemmeno per sogno. Diciamo tra il 10 e il 15% di quello che era l’occupazione prima che l’azienda migrasse all’estero.

La domanda di beni è decresciuta? Anche. La crisi, dei consumi non l’ho inventata io. Ma soprattutto le aziende vorranno ottimizzare i costi, ergo industry 4.0 benvenuta. Questa cosa la sanno i politici italiano europei o americani? Io direi di no. Lo sanno tuttavia le agenzie di management consulting, come A.T. Kearney, che in questa breve analisi chiarisce il rischio occupazionale (più che rischio uno scenario sicuro se andiamo verso la industry 4.0).

F) Diminuzione dei costi produttivi e aumento dei margini

Di questo tema inutile parlarne diffusamente. È l’unica storia di cui si scrive ampiamente in ogni opuscolo, volantino, conferenza. Il concetto è piuttosto semplice. Maggior disponibilità di dati + minor interazione umana (che secondo PWC è un danno alla produzione) + efficienza dei processi produttivi = risparmi nella produzione e aumento dei margini.

G) Moltiplicazione dei P&P (pani e pesci)

Ecco su questo punto vorrei soffermarmi un attimo.

La industry 4.0 è sicuramente una soluzione per competere con i paesi emergenti (a mio avviso emersi da un bel po’) come la Cina.

Competizione, bene inteso, creata dalle scelte delle multinazionali occidentali che hanno deciso, a beneficio di trimestrali più positive, di fare offshoring in nazioni dove il costo della manodopera era visibilmente più bassa.

Nella Trump vision riporteremo il lavoro qui. Il mondo delle aziende, a partire dalle grandi corporation, vive di trimestrali. I politici mediamente vivono in un arco temporale di 4 anni (parliamo dei governi democraticamente eletti ovvio), gli uomini hanno il brutto vizio di avere un arco temporale breve (se parliamo di memoria storica) ma tendono a vivere sempre più a lungo.

Una recente analisi del Guardian affronta il tema della futura disoccupazione nei paesi in via di sviluppo che si troveranno a fronteggiare una competizione da parte delle industrie 4.0 occidentali. Di sicuro uno scenario che potrebbe far gioire Trump, tuttavia non dimentichiamoci che la Cina ha la volontà, l’abilità, e le risorse per adattare, con maggior lentezza ma maggior decisione (diciamo che là tendono a risolvere alcune problematiche sociale in modo efficiente…) le fabbriche verso una soluzione 4.0.

In tutto questo mi domando se i politici sono a conoscenza delle ricadute negative (leggasi disoccupazione) che la industry 4.0 porterà.

Io direi no.

Ci sarebbe da discutere sul reddito di cittadinanza. Un tema che sembra molto populista ma se ci aspettiamo che i prodotti creati grazie a una soluzione 4.0 vengano acquistati, i consumatori dovrebbero avere soldi con cui pagare questi beni.

Ci sarà un perché se Elon Musk (uno che vuole portare gli uomini su Marte e ha i soldi per farlo, non esattamente l’ultimo degli sprovveduti) ha cominciato seriamente a parlare di reddito di cittadinanza come necessità, non come scelta populista di qualche politico.

E così come promesso dopo aver finito di parlare dell’uomo (il primo dipendente della nuova fabbrica 4.0) parliamo del cane.

Il cane sarà un dipendente modello, efficiente, a basso costo di mantenimento (acqua e cibo energetico). Sarà necessario, perché, parafrasando l’analisi PWC, l’uomo è una risorsa pericolosa, per le aziende del futuro.

@EnricoVerga