La quarta rivoluzione industriale e le conseguenze sul lavoro

scritto da il 29 Dicembre 2016

Pubblichiamo un post di Giovanni Caccavello, research fellow in European Policy presso EPICenter ed Institute of Economic Affairs. Master (MSc) in economia dello sviluppo presso la University of Glasgow

Nel lontano 1821, al culmine della Prima Rivoluzione Industriale, David Ricardo, uno dei più influenti economisti classici di fine ‘700 ed inizio ‘800, pubblicava la terza ed ultima versione della sua opera più importante: “Principi di economia politica e dell’imposta”.

Rispetto alle due edizioni precedenti (la prima pubblicata nel 1817), il contenuto del libro era rimasto pressoché inalterato. Nella versione del 1821, Ricardo aveva però deciso di introdurre un nuovo capitolo, precisamente il capitolo 31°, sull’automazione del lavoro, intitolato “On Machinery”.

In quelle fresche e dense pagine, l’economista Londinese ci spiega come la sua opinione, riguardo le innovazioni tecnologiche, fosse cambiata e che il concetto di “disoccupazione tecnologica” (espressione ufficialmente introdotta nel linguaggio economico da John Maynard Keynes nel 1930) fosse in linea con i corretti princìpi dell’economia politica.

Detto tra noi, Ricardo avrebbe forse fatto meglio a non pubblicare quel capitolo e probabilmente, se non fosse morto a soli 51 anni (nel 1823), avrebbe pubblicato una quarta edizione dei “Princìpi”, ritrattando quanto scritto sul rapporto “macchine-uomo”. Infatti, come viene riportato dalla Bank of England, il reditto medio di un lavoratore britannico a tempo pieno aumentò del 40% dal 1823 al 1873 e la percentuale di occupati rispetto al totale della popolazione passo’ dal 43 al 47 percento.

Di conseguenza, nonostante i numerosi tentativi luddisti di fermare il progresso tecnologico e l’affermazione del pensiero marxista, la condizione del lavoratore medio migliorò drasticamente nel corso di quei decenni.

L’idea erronea di Ricardo ricorda molto da vicino quella di molti economisti e commentatori nostrani. Il problema è però il seguente: se da un lato possiamo anche porgere le nostre scuse a Ricardo (il quale non riuscì a comprendere fino in fondo i princìpi economici di un cambiamento tecnologico mai verificatosi prima nella storia dell’uomo); dall’altro non possiamo far altro che “prendercela” con tutti quegli economisti di oggi, i quali, non curanti di quanto accaduto nel corso degli ultimi 200 anni, predicano un futuro in cui l’intelligenza artificiale sostituirà definitivamente il lavoro umano.

Per cercare di spiegare il progresso economico a cui abbiamo assistito tra il 1800 ed oggi (e che troppi intellettuali danno per scontato o fanno finta di ignorare) ed il rapporto tra capitale e lavoro, vi voglio riportare – qui di seguito – alcuni grafici estratti da un discorso fatto da Andy Haldane, capo economista della Bank of England, al congresso della Federazione Sindacale Britannica (TUC) a fine 2015. Tutti questi dati sono facilmente ritrovabili sul sito della Bank of England alla pagina “Three Centuries of Macroeconomic Data”.

Grafico 1: Produttività del lavoro dal 1750 al 2013 (a sinistra); Percentuale di occupati rispetto al totale della popolazione dal 1801 al 2013 (a destra)

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Grafico 2: Ore di lavoro settimanali Regno Unito e Stati Uniti dal 1856 al 2013 (a sinistra); Crescita della popolazione e variazione annuale del tasso di occupazione dal 1856 al 2013 (a destra)

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Sebbene questi dati riguardino l’andamento dell’economia del Regno Unito, bisogna dire che trend similari si sono verificati ovunque nel “mondo occidentale” e che in tutte quelle nazioni che hanno conosciuto un lungo e durevole sviluppo economico (come ad esempio il Regno Unito, l’Italia o Singapore), il salario reale del lavoratore medio è aumentato di un fattore che varia tra le 15 e le 100 volte nel corso degli ultimi 200, 100 e 50 anni. A riguardo, consiglio la lettura dell’intera trilogia di Deirdre McCloskey, intitolata “The Bourgeois Era”.

Al di là della semplice analisi dei dati, i grafici sopra riportati ci permettono di definire tre importanti fatti stilizzati di economia dello sviluppo (ed una certezza):

1. Nel lungo periodo, il progresso tecnologico è il principale fattore che determina la crescita economica.

2. Dalla Prima Rivoluzione Industriale (1770 – 1830) ad oggi, la tecnologia ha creato più posti di lavoro di quelli che ha distrutto.

3. La transizione verso sistemi di produzione sempre più complessi ha segnato l’inizio di una nuova epoca, caratterizzata da: concetto smithiano di “divisione del lavoro”, idea schumpeteriana di “distruzione creativa”; immensa crescita della produttività lavorativa; rapida diminuzione delle ore di lavoro settimanali; crescita senza precedenza dei salari reali.

Certezza: Contrariamente alle idee dei “Ned Ludd” di turno, le idee, l’innovazione ed il progresso tecnologico sono i fattori economici che tendono a valorizzare maggiormente il lavoro dell’uomo.

Malgrado tutto questo, ancora oggi, molti – forse troppi – continuano a ricadere nello stesso errore commesso da Ricardo e ci raccontano che “questa volta è differente” e che la “Quarta Rivoluzione Industriale” porterà alla perdita di milioni e milioni di posti di lavoro. In altre parole, stando a questi economisti, la digitalizzazione dell’intero sistema industriale e l’introduzione di macchine sempre più intelligenti sarà un vero e proprio disastro.

Da un punto di vista prettamente economico, questo “modus ragionandi” risulta essere sbagliato poiché tiene in considerazione solo uno dei due effetti che regolano il rapporto “capitale-lavoro”, il cosiddetto “effetto di sostituzione o spostamento”.

Questa visione parziale della relazione “macchina-uomo” tende a mettere in evidenza esclusivamente l’aspetto negativo di tale rapporto. Di conseguenza, secondo la vulgata, con il trascorrere del tempo, ceteris paribus, tutte quelle tecnologie che comportano una riduzione della fatica (“labour-saving technologies”) faranno aumentare la disoccupazione.

A questo effetto potenzialmente svantaggioso per il lavoratore ne va però aggiunto un secondo, molto positivo: il così detto “effetto di compensazione o effetto salariale”. Man mano che il capitale sostituisce il lavoro umano, il prezzo relativo di questo capitale tende a diminuire. Tale riduzione porta ad una conseguente diminuzione dei prezzi dei beni e dei servizi e ad un incremento del salario reale. Nel lungo periodo, questo processo genera una maggiore domanda per nuovi beni e nuovi servizi, portando così alla creazione di nuove industrie e alla formazione di nuovi posti di lavoro.

Come dimostra la storia economica di questi ultimi due secoli, l’effetto salariale ha sempre neutralizzato l’effetto di sostituzione. Oggi come ai tempi di Ricardo, questo principio si sta dimostrando vero.

Un esempio? In un paper del 2015, intitolato “Technological Change and Labour Market Disparities in Europe”, Gregory et al., analizzano l’impatto della computerizzazione del lavoro in 27 paesi Europei e dimostrano come questo processo abbia portato ad un aumento netto pari a 11,6 milioni di posti di lavoro tra il 1999 ed il 2010.

Un altro esempio? Dati redatti dal “Population Center” della University of Minnesota mettono in evidenza come il progresso tecnologico sia la causa primaria della trasformazione economica degli Stati Uniti. Se nel 1850 circa 2,5 milioni di americani (su un totale di 5 milioni di lavoratori) era impiegato nel settore agricolo, nel 2013-2014 il numero totale dei posti di lavoro ammontava a circa 145 milioni di persone e solo 1,5 milioni (l’1,03%) di questi erano impiegati nel settore agricolo.

La conclusione ovvia di questo discorso è una sola: se non fosse per il progresso tecnologico saremmo ancora tutti a lavorare nei campi, certamente più poveri e sicuramente disoccupati.

L’ultima certezza è quindi la seguente: le idee, le innovazione e le nuove tecnologie non solo tendono a valorizzare il lavoro dell’uomo, ma sono componenti fondamentale di un’economia libera.

Twitter @cac_giovanni