La nuova frontiera dell’alfabetizzazione si chiama imprenditorialità

scritto da il 28 Febbraio 2017

Nel 1861 in Italia il 77% delle persone non sapevano leggere e scrivere. Nel “breve” volgere di 80 anni, negli anni ’40, gli analfabeti erano crollati al 13,8%. Cosa era successo? Il fenomeno più importante fu certamente la diffusione della scuola, come si evince dal secondo dei grafici qui sotto.

Le élites risorgimentali e quelle che seguirono ritennero giusto far studiare i propri concittadini e lo fecero attraverso vari strumenti, a cominciare dall’obbligo scolastico. Le aziende e l’economia tutta beneficiarono di questa penetrazione di scuole e alfabetizzazione perché le persone erano sempre più capaci di fare i lavori che anno dopo anno creavano valore.

Dagli anni ’90 del Novecento questa penetrazione si è fermata. Siamo collettivamente fermi di fronte ad una domanda centrale per il nostro futuro: cosa è oggi la nuova alfabetizzazione?

analfabetismo

scuola

Io credo che la nuova alfabetizzazione sia l’imprenditorialità. Uso qui la definizione dell’Unione Europea:

“Il senso di iniziativa e l’imprenditorialità concernono la capacità di una persona di tradurre le idee in azione. In ciò rientrano la creatività, l’innovazione e l’assunzione di rischi, come anche la capacità di pianificare e di gestire progetti per raggiungere obiettivi. È una competenza che aiuta gli individui, non solo nella loro vita quotidiana, nella sfera domestica e nella società, ma anche nel posto di lavoro, ad avere consapevolezza del contesto in cui operano e a poter cogliere le opportunità che si offrono, ed è un punto di partenza per le abilità e le conoscenze più specifiche di cui hanno bisogno coloro che avviano o contribuiscono ad un’attività sociale o commerciale. Essa dovrebbe includere la consapevolezza dei valori etici e promuovere il buon governo”

La ragione per cui credo che l’imprenditorialità debba diventare un’abilità diffusa in tutta la società è legata fondamentalmente ai rapporti di forza tra persone e aziende. In passato le persone venivano aiutate da sindacati e regole nazionali a cercare un punto di equilibrio favorevole per loro. Globalizzazione e nuove tecnologie, in un mercato competitivo, hanno reso quegli strumenti non più efficaci. Il risultato è un continuo spostamento del valore generato dalle aziende dai salari dei lavoratori ai profitti delle aziende. La conseguenza è che essere proprietari di aziende risulta essere sempre più un vantaggio economico rispetto ad essere dipendenti. Ad esempio questi sono i dati in USA:

salaru

In passato erano soprattutto macchine e terreni: oggi l’investimento fondamentale delle aziende sono le persone e i frutti delle loro idee, protetti da brevetti e copyright. Quindi il valore vero che giace nello stato patrimoniale delle aziende (anche se non viene scritto nei libri contabili) è proprio quello delle persone.

Ecco perché i lavoratori devono essere in grado di saper rivendicare per se stessi il valore che sono in grado di creare all’interno dell’azienda, altrimenti l’azienda stessa avrà vita facile ad appropriarsene giorno dopo giorno.

Ora, la creazione di valore è strettamente correlata all’imprenditorialità. Se noi analizziamo i salari delle varie componenti del mondo del lavoro, scopriamo che chi è pagato molto viene pagato sempre di più e chi è pagato poco viene pagato sempre di meno (in proporzione alla media). Io sono profondamente convinto che il fattore fondamentale di questa forbice sia l’imprenditorialità, posseduta in media dai primi e non dai secondi.

Dobbiamo cambiare la nostra cultura, le nostre scuole, il mercato del lavoro.

Da una cultura risk-adverse dobbiamo cominciare a insegnare ai nostri figli il risk-management e la regola fondamentale: maggiori rischi sono connessi con maggiori ritorni medi.

Da una scuola pensata per riempire le persone di sapere e che concede poco all’iniziativa individuale, dobbiamo pensare a palestre in cui mettersi alla prova e apprendere il fare, l’inventare, lo sbagliare, il soffrire fallimento dopo fallimento.

Da un mercato del lavoro largamente basato su contratti da dipendente a stipendi fissi dobbiamo immaginare un mercato in cui c’è ampia condivisione dei risultati raggiunti: in entrambe le direzioni, condividendo quindi il rischio di impresa e i successi di impresa.

Da informazione, politica e leggi dello stato che inchiodano quasi sempre i ruoli di aziende e lavoratori in sfruttatori e sfruttati, forti e deboli, abbiamo bisogno di un approccio che li vede sullo stesso piano.

Senza una popolazione più imprenditoriale il declino del lavoro e le disuguaglianze sono destinate a colpire a morte le democrazie per come le abbiamo conosciute fino ad oggi.

Twitter @lforesti