La montagna del debito americano a quota 20mila miliardi di dollari

scritto da il 10 Marzo 2017

Pubblichiamo un post di Paolo Migliavacca, esperto di geopolitica, collaboratore del Centro Einaudi di Torino

Grecia? Italia? Portogallo? Tra i Paesi che destano i maggiori timori in materia di debito pubblico, pochi pensano siano compresi gli Stati Uniti. Che invece stanno per tagliare il traguardo cruciale dei 20mila miliardi di dollari (al netto di altri 3.125 miliardi dovuti dai singoli stati e dalle municipalità locali). La data fatidica, giorno più giorno meno, è fissata nelle prossime settimane. Al di là della cifra assoluta, pur in sé molto significativa, sono una serie di raffronti ad acuirne il rilievo.

Il debito americano, benché costituisca una parte non eccessiva del totale mondiale (poco più del 9% dell’astronomico cumulo di 217mila miliardi stimato all’inizio di gennaio dall’Institute for International Finance, pari al 325% del Pil mondiale), è pur sempre il primo in assoluto. Ma anche la classifica in rapporto al Pil vede ormai gli Usa piazzati all’ottavo posto, dinnanzi a casi comunemente ritenuti assai più gravi, come quello della Spagna. Se si considera poi il cruciale “debt-to-revenue ratio” (cioè il rapporto con le entrate del governo federale, il denaro con cui il debito andrebbe onorato), si entra in un vero campo minato: il passivo è quasi dieci volte superiore alle entrate.

Com’è nato questo debito enorme? La causa principale va individuata negli elevati deficit di bilancio statale accumulati negli ultimi decenni. Dopo il picco del 120% superato alla fine della Seconda Guerra mondiale per finanziare la colossale spesa bellica, il debito scese costantemente per oltre un trentennio, fino alla soglia del 30% del Pil raggiunta a fine anni 70, grazie soprattutto a una crescita economica media annua superiore al 4% nel periodo 1950-1979, nonostante il peso di due guerre costose come quelle in Corea e in Vietnam.

Il trend virtuoso si invertì con l’arrivo alla Casa Bianca di Ronald Reagan, che lanciò un’epocale sfida geopolitica all’Urss basata sull’incremento vertiginoso della spesa bellica, risultata insostenibile per Mosca ma molto gravosa anche per le finanze statunitensi, con un salto dell’indebitamento dal 32% al 50% del Pil. Dopo le presidenze “virtuose” di Bill Clinton, in cui fu avviata una certa riduzione, la via del “debito facile” fu ripercorsa da George Bush jr, con il superamento della soglia del 60% per il riarmo dovuto alla guerra ad al-Qaida e all’invasione dell’Iraq. L’ulteriore balzo di 9.300 miliardi – senza precedenti in un periodo di pace – è legato alla scelta di Barak Obama di contenere la devastante crisi finanziaria, seguita al fallimento di Lehman Brothers, mediante il ricorso a un prolungato e massiccio “quantitative easing”. Operazione nel complesso riuscita, ma al prezzo di un aumento dal 65% a oltre il 100% del debito totale rispetto al Pil.

Se invece si analizza la composizione dei 20mila miliardi dollari, si scopre che oltre due terzi (13.700 miliardi) sono detenuti da risparmiatori, imprese ed enti pubblici che posseggono banconote, obbligazioni e altri titoli del debito, mentre il restante terzo è costituito da debito interstatale, contratto tra oltre 230 agenzie federali. A destare i maggiori timori è la parte (pari a 2.800 miliardi) detenuta dal Social Security Trust Fund, il sistema pensionistico americano – per anni con gestioni fortemente attive e quasi tutte riversate in titoli del debito interno, ma da tempo indebolito dalla prolungata crisi economica che ha ridotto le sottoscrizioni degli aderenti per numero e consistenza, mentre nel contempo si affacciano alla pensione i numerosi “baby boomer”. Dal 2010 i versamenti erogati sono superiori agli introiti, cosa che mette in dubbio la possibilità di continuare ad acquistare in futuro una quota così elevata (14%) del debito.

Anche la parte detenuta da investitori esteri (6.281 miliardi, il 31,5%), quasi tutti stati sovrani, nasconde insidie rilevanti. In particolare, il fatto che i due principali creditori siano Giappone (1.108 miliardi) e Cina (1.049). Poiché è loro interesse sostenere il valore del dollaro rispetto a quello delle loro valute nazionali per favorire la competitività del loro export, il controllo di oltre il 10% del debito americano dà loro un’arma potente di ricatto politico, grazie alla minaccia di tagliare fortemente il periodico riacquisto dei Treasury Bond Usa. Benché, tuttavia, sia paradossalmente vero anche il contrario: entrambi sono indotti a detenere una quota elevata di debito Usa per evitare tracolli nelle quotazione del “biglietto verde” che si tramutino in un aiuto insperato alla politica trumpiana, che punta a indebolire il dollaro per sostenere le vendite di prodotti statunitensi.

Un’ulteriore criticità, infine, è costituita dalla ripartizione del debito, che su base individuale ammonta a 61.560 dollari per cittadino americano, mentre per contribuente addirittura a 167mila dollari. A confronto, la “derelitta” Italia deve poco più della metà su base procapite (35.925 dollari) e meno di un terzo (neppure 53mila dollari) per contribuente, su un totale equivalente a 2.292 miliardi di dollari. La debolezza Usa è accentuata dal fatto che la famiglia americana – il vero pilastro su cui si fonda la capacità di ripagare quanto dovuto – nella classifica mondiale della ricchezza figura solo al 19° posto, mentre quella italiana è addirittura al terzo. Ciò si spiega anche perché – come ebbe a dire nei primi anni 90 l’allora ministro italiano delle Finanze, Rino Formica – nel nostro Paese «il convento è povero, ma i frati sono ricchi». La ricchezza netta delle famiglie italiane è pari a sette volte il reddito disponibile, sei volte il Pil, quattro volte e mezzo il debito pubblico, cosa che costituisce la più solida delle garanzie. Ma se e come questa ricchezza dovrà contribuire a ripianare il “buco” lasciato da troppe sciagurate gestioni passate (e il pensiero corre subito al periodico spauracchio di un’imposta patrimoniale), è tutta un’altra storia.

La domanda finale (da un … miliardo di dollari) sul debito Usa è: si può concretamente ridurre? Alcune vie sono già state individuate in passato (tra le più ripetute: taglio degli aiuti all’estero, riduzione del pubblico impiego, tetto alla spesa sanitaria pubblica, rientro di parte delle truppe militari all’estero). Ma se Trump intenderà mantenere alcune delle sue onerose promesse elettorali (forte aumento delle spese militari, massicci programmi di risanamento delle infrastrutture pubbliche e grandi riduzioni di tasse per le fasce di reddito più abbienti), è più probabile che il debito vada rapidamente verso “quota 25mila” miliardi, invece di restare prossimo alla soglia dei 20mila. Sempre che le maggiori agenzie di rating (non per caso tutte americane…) continuino a ritenere “affidabile” questo enorme passivo, attribuendogli l’inverosimile rating “AA+”, contro il “Baa2” attribuito all’Italia, al pari di Marocco e Kazakistan e dietro a Panama, Filippine e Thailandia.

40 anni di crescita vertiginosa

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I presidenti Usa che più hanno contribuito all’aumento del debito

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In rapporto al Pil gli Usa sono all’8° posto mondiale …

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… ma rispetto alle entrate del governo federale sono al 2°! (dato 2015)

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