Robot e lavoro: vacanze a vita chissà ma da quando, esattamente?

scritto da il 17 Marzo 2017

Pubblichiamo un post di Marco D’Egidio, ingegnere civile, scrive di attualità e politica per T-Mag, il magazine dell’istituto di ricerca e comunicazione integrata Tecnè. Grande tifoso dell’Inter

Dopo mesi di dibattito globale sulla post verità, l’argomento del momento pare essere diventato quello sulla “sorte” del lavoro, inteso come attività prettamente umana. Praticamente tutta la Silicon Valley concorda sul fatto che nei prossimi decenni non solo molti posti di lavoro ma anche intere categorie professionali scompariranno per effetto dello sviluppo e diffusione dei robot e dell’intelligenza artificiale. Il tasso di disoccupazione potrebbe quindi schizzare alle stelle, e rendere necessari nuovi strumenti per garantire il sostentamento della società.

Tale dibattito, per quanto possa fondarsi su studi e ricerche strutturate e fregiarsi del contributo di veri e propri driver come ad esempio Bill Gates ed Elon Musk, appartiene ancora e inevitabilmente alla sfera del futurismo, per non dire della fantascienza, come vi appartiene qualsiasi confronto tra previsioni a medio-lungo termine in cui entri il fattore umano. Affinché il taglio delle posizioni sia un po’ meno letterario e un po’ più concreto e misurabile, proprio sugli orizzonti temporali di questo (supposto) cambiamento epocale occorrerebbe prima di tutto ragionare.

L’essenza delle previsioni consiste nell’ipotizzare quando una certa quota (rilevante) di posti di lavoro sarà scomparsa per effetto della tecnologia (“entro il 20xy il z0% di persone saranno disoccupate a causa dei robot”). In questo tipo di discorso è implicito il delineamento di una disoccupazione crescente da livelli prossimi a quelli attuali fino ad arrivare al valore ipotizzato.

Ma quando, esattamente, tale fenomeno inizierà? Piuttosto che “entro quando” la transizione sarà compiuta (John Maynard Keynes diceva umoristicamente “sul lungo periodo siamo tutti morti”), non sarebbe più interessante, e anche realistico, cercare di capire “a partire da quando” si comincerà ad avvertire un primo significativo aumento della disoccupazione totale per effetto della cosiddetta Quarta Rivoluzione Industriale? Un aumento, ovviamente, che sia univocamente attribuibile alle nuove tecnologie, e non ad esempio dovuto a crisi economiche di origine non tecnologica (quale quella di origine finanziaria di cui ancora accusiamo i pesanti contraccolpi).

A partire dal 20xy, nelle principali economie avanzate del mondo si cominceranno a registrare aumenti visibili della disoccupazione dovuti ai robot e all’intelligenza artificiale”. Una simile previsione non è detto che sia meno sensazionalistica, e quindi meno d’impatto sull’opinione pubblica; sicuramente sarebbe più tangibile (anche perché a più breve termine). Forse si dà per scontato – un po’ furbescamente – che siamo già entrati in un’indefinita vigilia della rivoluzione; tralasciando il fatto che senza una più precisa definizione dello “start” del processo rischiamo ogni giorno di dire “e anche oggi i robot ci ruberanno il lavoro domani”.

Di certo, alla data attuale il “job stealing” delle tecnologie intelligenti non può ancora dirsi avviato, se è vero che il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti è tornato ai livelli pre-crisi (sotto il 5%), quello della Gran Bretagna pure (il 5,3% a tutto il 2015 dopo un picco dell’8,1% nel pieno della crisi), mentre quello dell’Eurozona ha ricominciato a diminuire negli ultimi anni pur rimanendo ancora distante dai valori del 2007 (10,9% nel 2015 contro il 7,4%, dati Eurostat). Altra valutazione merita il tasso di disoccupazione dei singoli Paesi dell’Euro, tra cui quello, alto, dell’Italia, o ancor più alto della Spagna. Tuttavia le differenze in questo caso non paiono ancora attribuibili alla tecnologia quanto piuttosto al diverso impatto della crisi sulle economie nazionali.

Eppure è già da qualche anno che l’economia digitale ha fatto capolino nei nostri sistemi industriali e produttivi. Non sarà ancora venuto il momento dell’intelligenza artificiale, d’accordo, ma se fosse vero, come è vero, che molti lavori e professioni, non solo manuali ma anche di concetto, stanno già scomparendo (il settore bancario è uno dei casi più evidenti in cui l’informatizzazione e il web possono sostituirsi al lavoro umano), sarebbe anche vero che finora il sistema, nel suo complesso, ha compensato tali scomparse o riduzioni creando nuovi posti di lavori o professioni fino a qualche tempo fa imprevedibili – come dimostrano i già citati livelli di disoccupazione. Perché tale processo di sostituzione e rigenerazione del lavoro umano dovrebbe in futuro interrompersi? Ma soprattutto, per tornare alla domanda di fondo: quando il tasso di scomparsa del lavoro umano dovrebbe superare in velocità il tasso di generazione di nuovi posti di lavoro? La risposta “domani” è insufficiente.

Infine, c’è anche un aspetto qualitativo da tenere in considerazione. A prescindere dagli interrogativi temporali, il fatto che dei robot possano sostituirsi agli esseri umani non soltanto per la loro capacità di compiere lavori ripetitivi, ma anche per un’inedita capacità di prendere decisioni non banali ponderando alternative, apre tutta una serie di dilemmi di diversa natura, anche etica.

Ma la vera domanda è la seguente: fino a che punto saremo disponibili a cedere la nostra volontà decisionale a degli umanoidi? Qui la tecnica non c’entra: è unicamente una questione di scelta (di rinuncia al proprio libero arbitrio). Non solo: fino a che punto fattori come la sensibilità e l’empatia, soft skills come la leadership e l’attitudine relazionale (tra l’altro sempre più rilevanti e ricercate nel mondo del lavoro), saranno replicabili con degli algoritmi, per quanto raffinatissimi nel simulare gli uomini? Un medico, la cui competenza e conoscenza non è solo tecnico-scientifica ma anche e soprattutto umana, sarà mai sostituibile da un robot, in tutti quei campi della sua attività che implicano un rapporto col paziente al di fuori delle quattro mura di una sala operatoria?

A queste domande di personale scetticismo sulla sostituibilità di molto, moltissimo lavoro umano, l’obiezione sarà sempre la stessa: oggi non possiamo sapere. Ma se “oggi non possiamo sapere”, non possiamo neanche sapere l’opposto, ovvero che i robot ruberanno il nostro lavoro e noi saremo consegnati a un futuro di vacanze a vita. A meno di non fare della fantascienza (o della post-truth, se si preferisce).

Twitter @madegidio