Macché ulivi, è il solito Stato vs Regioni

scritto da il 02 Aprile 2017

La vicenda della costruzione del gasdotto Tap e le proteste correlate stanno occupando una parte della cronaca delle ultime settimane. Si legge con un certo smarrimento di situazioni veramente paradossali. Ma dietro la vicenda – che ha un impatto ambientale e sul territorio risibile rispetto a migliaia di opere pubbliche e private sostanzialmente ignorate – si può individuare una questione di fondo molto più delicata e rilevante per il contesto istituzionale italiano. Fra i protestanti, vi è il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano che – oltre alle note vicende politiche interne del Partito Democratico – sembra fondare la sua opposizione su un motivo cardine di tipo politico-istituzionale: lo Stato deve avere il mio okay per decidere dove far passare questi tubi.

Dalle parole ai fatti, è pendente innanzi alla Corte Costituzionale un ricorso presentato dalla Regione Puglia per conflitto di attribuzione, affinché la Corte dichiari « (…) che non spetta allo Stato (…) il potere di  negare (…) l’adozione degli atti necessari ad ottemperare a quanto statuito dalla  sentenza di questa Corte n. 110 del 2016 in relazione al procedimento che ha condotto al rilascio dell’autorizzazione per il gasdotto TAP, in violazione delle attribuzioni regionali garantite dagli articoli 117, terzo comma, e 118, primo  comma, della  Costituzione,  nonché dal principio di leale collaborazione (…)».

Non è il primo ricorso, non sarà l’ultimo. Negli ultimi sedici anni ne abbiamo già visti tanti. Passata la foga del referendum costituzionale del 4 dicembre, l’inefficienza del Titolo V resta e considerati gli anni (o decenni) che trascorreranno prima che possa vedere la luce una riforma della Carta, una qualche forma di pace tra gli organi costituzionali sarebbe auspicabile. Ma innanzitutto occorre ben capire cosa non abbia funzionato dal 2001 ad oggi.

Ci aiuta in questo un recente paper della Banca d’Italia, a cura di Cristina Giorgiantonio,  che si concentra sulle modifiche introdotte con la riforma del Titolo V, analizzate dal punto di vista delle indicazioni provenienti dalla letteratura economica e da quello degli effetti sul sistema, con ricostruzione della giurisprudenza costituzionale che ne ha definito i confini.

Inutile spendere troppe parole sulla riforma del 2001, che ha ridisegnato l’assetto costituzionale della Repubblica in un’ottica maggiormente federalista, incidendo sulla potestà legislativa dei vari livelli di governo. Come noto, è stata l’introduzione del nuovo art. 117 a rappresentare la novità più incisiva, con l’iniziativa legislativa in materie “concorrenti” affidata alle Regioni e con i principi fondamentali sotto l’egida statale.

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Lo studio evidenzia che l’assegnazione di alcune competenze alle Regioni non è coerente con le indicazioni della letteratura economica. Ad esempio è il caso delle “grandi reti di trasporto e di navigazione”, dei “porti e aeroporti civili”, della “produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia”, dell’ “ordinamento della comunicazione”, della “protezione civile”, del “commercio con l’estero”, poiché queste competenze presentano «(…) significative ricadute al di fuori dell’ambito regionale e che, in considerazione di necessità di uniformità e unitarietà organizzative, nonché per la presenza di economie di scala, sembra preferibile gravitino attorno alla sfera dello Stato centrale (…)». Idem con riferimento all’ “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. E poi ci sono le aree ibride di competenza che creano incertezze (beni culturali, previdenza, tutela e sicurezza del lavoro etc.).

La riforma ha prodotto degli effetti sul lavoro della Corte Costituzionale. Molto rilevanti i numeri dei ricorsi in via principale. Si passa da un dato medio pre-riforma di 47 decisioni ad uno post-riforma di 113, con un’incidenza sul totale delle pronunce della Consulta passato da un dato medio del 7 % (1983-2001) al 27 % nel periodo post-riforma, con picchi del 50 % come nel 2013. Risulta essere più litigioso lo Stato, che ha introdotto il 65 % dei giudizi (2003-2015), mentre a livello di materie oggetto di decisione prevale la finanza pubblica e il sistema tributario (23 % dei ricorsi). Interessante notare che nel 32 % dei casi (2003-2015), le leggi oggetto di ricorso sono state modificate nelle more del giudizio, a testimonianza di un utilizzo del diritto come mezzo strumentale per imporre una trattativa politica.

Infine, lo studio analizza il ruolo della Corte, chiamata a sopperire alle carenze del legislatore costituzionale. La Corte ha cercato di favorire in qualche modo l’azione statale, attraverso il concetto di “materie trasversali” che prescindono dalla ripartizione delle competenze e applicando in alcune pronunce un’interpretazione estensiva dei ”principi fondamentali” la cui elaborazione è di competenza statale. Ma in ossequio all’art. 120 della Costituzione, ha dovuto allo stesso tempo mitigare il potere di intervento dello Stato per rendere effettivo il principio di leale collaborazione. Quest’opera certosina della Corte è cresciuta nel corso degli anni. E da qui discende una casistica fondamentale, che riguarda ad esempio il ricorso della Regione Puglia di cui si accennava nella prima parte, ma anche altre pronunce importantissime, come la sentenza del 25 novembre 2016, n. 251, sulla riforma della pubblica amministrazione, una riforma partita con la legge delega dell’agosto 2015 e azzoppata – solo in alcune sue parti – dalla Corte.

Ma come si esplica il principio di leale collaborazione?  Il paper richiama l’orientamento della Corte, che mira a distinguere lo strumento di collaborazione Stato-Regioni in base alle circostanze concrete, «a seconda del quantum di incidenza sulle competenze regionali». In alcuni casi – nelle materie di competenza regionale – la Corte ha richiesto un’intesa “forte” preventiva con potere decisionale paritario tra Stato e Regioni, mentre in altri casi – di minore impatto – è stato ritenuto sufficiente il parere regionale.

La differenza non è di poco conto. Mentre nei casi di “intese deboli” lo Stato può assumere – in caso di mancata intesa – la decisione finale decorsi 30 giorni dalla convocazione del primo incontro (art. 3 del D.lgs. n. 281/1997), nelle ipotesi in cui si rendono necessarie “intese forti” l’ostacolo del mancato accordo è insuperabile e lo Stato non detiene l’ultima parola. Ovviamente i propositi della Consulta sono in linea con la riforma del 2001, ma attribuiscono una sorta di potere di veto alle Regioni, superabile solo con un accordo politico. E nonostante  ci troviamo in una fase in cui il partito di maggioranza relativo in Parlamento è lo stesso a cui appartiene la stragrande maggioranza dei presidenti di regione, la conflittualità resta altissima. Immaginate in uno scenario in cui non ci sia questa coincidenza politica al tavolo della Conferenza Unificata.

Appurato che è impensabile un nuovo tentativo di riforma costituzionale nel breve termine, sarebbe opportuno che lo Stato si comportasse come un buon padre di famiglia con venti figlie un po’ ribelli capaci di dire “No”, spesso per ovvie ragioni di ricerca del consenso politico. Come ha scritto Bini Smaghi con riferimento all’Unione Europea, «(…) in democrazia bisogna convincere gli altri. E se non ci si riesce, bisogna continuare a provarci». Si può traslare la riflessione, con ovvi distinguo, anche per quanto concerne il rapporto Stato-Regioni.

Tutti i programmi dei partiti politici contengono capitoli dedicati alle riforme. Sarebbe opportuno che chi si propone per governare l’Italia studiasse profondamente l’articolo 117 della Costituzione e la giurisprudenza costituzionale dal 2001 ad oggi. Contemporaneamente anche le Regioni dovrebbero fare la loro parte, mostrando maggiore prudenza e consultandosi prima di adottare leggi regionali chiaramente lesive degli interessi nazionali.

Avremo pure un assetto costituzionale inefficiente, ma in attesa di eventuali cambiamenti nessuno può esibirsi in inutili prove muscolari, perché ciò comporterebbe solo uno spreco enorme di tempo e di risorse. E da questi conflitti non ci guadagna nessuno. Quasi nessuno, dato che ad esempio nel 2016 (dati SIOPE) le spese per liti (patrocino legale) della Regione Puglia superano i sei milioni di euro, quelle della Lombardia si fermano a poco più di un milione e mezzo.

Twitter @frabruno88