Turismo e risorse pubbliche, la strada fatta e quella da fare. Spiegato con calma

scritto da il 27 Giugno 2017

Pubblichiamo un post di Raffaello Zanini, fondatore del portale Planethotel.net –

Enit e il ministro della Cultura stanno facendo un forte sforzo di promozione dell’Italia minore, i borghi, Matera capitale della cultura, i mille piccoli musei, i cammini. Sforzo encomiabile, su cui si investono soldi e risorse, che io non ritengo prioritario, perché dovrebbe essere accompagnato da investimenti in infrastrutture di accoglienza, senza però sconvolgere la bellezza del territorio. (ma per farlo servono visione, capitali e progettazione, ad oggi mancanti).

Il Demanio dello Stato fa un’azione di vendita o di assegnazione di piccole strutture che possono essere adibite ad uso turistico, come le case cantoniere, i fari, qualche edificio sperduto: cose di pochissimo peso, inutili.

Si tratta di operazioni che non incideranno sui maggiori flussi turistici, che se andrà bene permetterà al Demanio di togliersi di dosso qualche immobile inutile, che costa e non rende, e se andrà male obbligherà qualche giovane a spenderci tempo e denaro per rincorrere un “sogno” fallimentare.

Alcuni operatori esteri concentrano invece i propri acquisti, a colpi di centinaia di milioni, su pochi immobili alberghieri di altissimo pregio nel centro delle principali città d’arte. Tra questi si è distinto il Fondo del Qatar che ha comprato a Venezia, Milano, Roma, Firenze, affidandosi a gestori di standing internazionale. Värde Partners acquisisce una parte degli hotel di Boscolo a condizione che non sia più la famiglia a gestirli: mi dispiace perché è un brutto segnale.

L’unica vera catena italiana – auguri sinceri a proprietà e lavoratori- è quella che nasce dalla fusione di UNA HOTELS e ATAHOTELS sotto l’egida di Unipol, mentre altri “stranieri” – come i tedeschi di Leonardo – si affacciano in modo aggressivo.

Operatori di origine cinese e taiwanese investono in hotel, cercano i più grandi,di media qualità al fine di poter organizzare i viaggi dei propri concittadini, soprattutto vicino a città e centri commerciali dove fare l’esperienza di shopping del Made in Italy. Mentre il fenomeno Airbnb sta sconvolgendo il mercato del turismo mondiale, con buona pace degli albergatori che si devono attenere alle rigide norme dell’industria alberghiera.

Anche lo Stato (nelle sue varie forme) ha tentato di indirizzare senza successo il mercato immobiliare degli alberghi. La difficoltà del settore viene confermata dai dati della contribuzione dell’incoming turistico sul PIL, che a partire dal 2000 è sempre stata inferiore a quella degli anni ’90: in quegli anni c’è stata una svolta che imprenditori e “Stato” hanno faticato a comprendere, peggiorata ancor di più dopo il 2009, con una leggera ripresa solo di recente.

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Dopo il fallimento del Fondo Hospitality and Leisure di Pirelli RE, abbiamo visto nascere Italia Turismo e svilupparsi l’attività di finanziamento con i contributi pubblici di Invitalia, inoltre miliardi di euro dei fondi comunitari sono stati letteralmente sprecati in nome del turismo al Sud, che non ha aumentato il proprio ruolo nel settore. Ben il 67% della spesa dei turisti internazionali si concentra, infatti, in sole cinque regioni (Lombardia, Lazio, Veneto, Toscana, e, piuttosto distaccata, la Campania).

Da oltre dieci anni le persone che girano attorno al mondo degli investimenti pubblici nell’immobiliare turistico sono sempre le stesse: chissà se l’articolo su CDP pubblicato da L’Espresso a firma di Alberto Crepaldi può iniziare a fare luce su questo tema, e soprattutto comprendere che peso hanno avuto gli interessi di dette persone nel determinare certe decisioni di CDP.

La tesi che sostengo (da tecnico, urbanista, consulente con una lunga esperienza nel settore turistico) è che sempre più spesso le scelte di impiego del denaro pubblico nulla hanno (avuto) a che vedere con un utilizzo razionale e visionario delle risorse .

Già ho avuto modo di occuparmene a proposito della Perla Ionica e abbiamo visto come è andata a finire. Così come abbiamo evidenziato l’errore di investire in un gestore bravo a raccontarla come Sir Rocco Forte. Chi aveva ragione tre anni fa? Il grillo di Pinocchio.

Veniamo quindi alla strategia che sta sotto le scelte effettuate da CDP nel turismo, e vediamo che cosa invece si sarebbe potuto fare, forse con più fatica, ma soprattutto dando più spazio al mercato.

Come ha ben chiarito Crepaldi CDP ha deciso di investire in alcune grandi operazioni che permettono di trasferire liquidità ad altri enti pubblici (come il caso di Venezia Lido); favorire il rafforzamento patrimoniale di gruppi privati in evidente difficoltà gestionale; acquisire (non importa a quale prezzo, anche basso) strutture assolutamente invendibili (che negli ultimi anni nessuno ha mai voluto comprare): è il caso dei cosiddetti 5 resort, che sono semplici colate di cemento che richiedono grandi interventi di ristrutturazione; introdurre sul mercato alberghiero di alcune città (come Roma e Firenze, ma anche come Bologna) strutture con moltissime camere, dando vita ad operazioni certamente intelligenti (per il gestore), facendo ricadere sui piccoli privati i duri effetti del mercato.

Quale nesso logico vede il mio lettore tra le politiche di promozione del ministero e gli interventi di CDP? “Nessuno”. Infatti sono due strategie agli antipodi. Quale vantaggio per la miriade di piccoli albergatori che lavorano molto bene e che sono leader locali, che potrebbero crescere? “Nessuno, anzi.”

Perché comprare grandi alberghi, che non a caso sono in crisi e che per anni nessuno ha voluto, come quelli definiti pomposamente “resort”, in località di mare o montagna, o attivare l’operazione di The Student Hotel con strutture da 500 camere in centro città (derogando da norme urbanistiche e decisioni pubbliche), o dare origine a un mega complesso al Lido di Venezia, nulla ha a che fare con gli obiettivi di crescita del turismo di qualità propagandata dal ministero: su Venezia, i troppi interventi fuori del centro storico, sulle isole, a Murano, al Lido, a Mestre in zona stazione, la congestione dei pendolari, l’insensatezza di certe decisioni del Comune, servirebbe un libro intero.

Perché l’Italia turistica possa crescere devono crescere gli imprenditori, per numero e per fatturato. Si deve dare forza a imprenditori che sono e restano “piccoli” nonostante siano bravi a fare il proprio mestiere, gente che conosce l’arte di ospitare, che conosce il proprio territorio, le sue potenzialità, e che ha già una buona capacità commerciale.

Tra questi vanno individuati quelli che vogliono crescere, che sanno come fare, e che non hanno i mezzi per farlo perché immobilizzati nel loro patrimonio immobiliare. Sono centinaia gli imprenditori che non definirei piccoli, cui si deve togliere il peso della proprietà delle mura, e che con la liquidità così ottenuta possano reinvestire nell’azienda alberghiera, creando strutture “grandine” con economie di scala nella gestione, non occupandosi più di immobili.

Questa è la strada da intraprendere.

Questa era la strada inizialmente proposta da CDP per il turismo italiano.

Invece (chissà perché?) la decisione dei primi 250-300 milioni di investimento è servita come salvagente per enti pubblici in difficoltà, aziende private in difficoltà, amici che si spostano da un consiglio di amministrazione all’altro continuando a tessere le proprie trame sempre e comunque in relazione con amici seduti in qualche ente pubblico.

A mio parere è quindi opportuno, come già sto facendo, occuparsi di nuove destinazioni anche fuori d’Italia, e di strumenti finanziari che vengono utilizzati in altri mercati più ricchi e più frizzanti del nostro, piuttosto che continuare a rincorrere contributi e soldi pubblici. In Italia il rischio è che tutto resti come è oggi: i “fortunati” baciati dalla dea bendata e tutti gli altri a fare una fatica immane, per poi pian piano svendere.

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