Festival di Venezia? Schiavo di una Hollywood vittima delle saghe (e dei big data)

scritto da il 02 Settembre 2017

Con grande giubilo si è aperta, come ogni anno, la kermesse del cinema di Venezia. Critici, attori, registi, giornalisti, Vip, Semi Vip, Amici dei semi vip, esseri umani comuni, cani e gatti, si danno da fare per guadagnare un attimo di celebrità.

Domanda: che film ha inserito tra quelli in apertura (seconda giornata) il grandioso, culturalmente erudito, festival di Venezia? The Shape of Water (La forma dell’acqua). In alcune recensioni definito un fantasy melanconico surreale e via discorrendo. In realtà Guillermo del Toro, famoso per Hellboy (un paio di film ben riusciti, tratti dalla saga di fumetti omonima), sembra aver ripescato uno dei personaggi del celebre fumetto (Abe Sapien). Alcuni sostengono che non c’entri nulla, altri che sia un prequel.

Curioso come, anche, il sacro festival di Venezia debba inginocchiarsi di fronte a un maestro delle saghe come Del Toro. In vero questo è l’ultimo, forse meno significante, scontro di una battaglia che Hollywood (di cui Venezia è malcelatamente serva) ha, ormai, perso (salvo che non se ne vuole fare una ragione).

Una scena del film The Shape of Water

Una scena del film The Shape of Water

Partiamo dall’inizio e facciamo un po’ di chiarezza. È un discorso lungo ma abbiate pazienza, scopriamo come i big data hanno devastato Hollywood oltre ogni modo. Sin dai tempi di Gilgamesh e Thor (la saga di Odino, non il biondo muscoloso del film!) fino all’era moderna di Superman, Captain America, gli eroi hanno avuto un ruolo vitale nella storia della società umana: hanno tenuto insieme le civiltà.

Di recente gli eroi delle saghe sono stati chiamati per proteggere un altro universo: Hollywood.

Consideriamo i dati resi disponibili dal sito Gamesradar (Febbraio 2017): sinora le saghe hanno pagato bei dividendi.

Dc universe 2,3 miliardi usd, Superman 2,4 miliardi usd, Ironman 2,4 miliardi, Batman (la nuova saga) 2,4 miliardi, lo Hobbit (dopo tutto storicamente una saga molto più antica dei fumetti) 3 miliardi, Xmen 4,4 etc.

Non dimentichiamoci anche le saghe moderne. Nate originariamente come film singolo, (tanto per dire il primo Star Wars) si sono evolute e sono divenute saghe moderne.

Tra le nuove saghe ci sono quelle di Hunger Games con quasi 3 miliardi, Twilight con oltre 3,3 miliardi, i Pirati dei Caraibi con 3,7 miliardi e Jurassic Park con 3,5 miliardi.

La psicologia insita in tutte queste opere non è né più né meno quella dei classici della tragedia e della commedia greca, con aggiunta di buoni e cattivi (più o meno credibili e crudeli, eventualmente alieni) e, cosa più importante, montagne di franchising: giocattoli, abiti economici fatti in qualche sweatshop asiatico (con tanto di operai senza diritti umani), anche rasoi e prodotti per la pelle.

L’evoluzione di Hollywood intorno alle saghe è, probabilmente, già parte del Dna di questa industria. L’industria del cinema si è plasmata da un sistema di studios degli anni 30-50. A quei tempi esistevano grandi studios, e un numero molto elevato di piccole realtà. Queste ultime sfornavano oltre centinaia di pellicole ogni anno, quelle che noi oggi chiameremmo B movie. Quasi sempre western (deserto, lande spoglie, 4 cavalli e due cappelli da cowboy più uno sceriffo) che a quei tempi erano molto popolari. Ora esistono 6 grandi studios che sono capaci e interessati a spendere grandi cifre per produrre film con eroi.

Le saghe, una volta che hanno azzeccato il primo episodio, sono una soluzione affidabile per fare soldi. Una mucca da mungere che, dando per assunto un produttore e un regista decenti, possono continuare all’infinito.

Perché Hollywood e le saghe sono diventati cosi amici? Hollywood è una industria che macina e sputa fuori contenuti, una volta venduti possono pagare i finanziatori di Wall Street o, di recente, i cinesi.

Tuttavia negli ultimi 10 (facciamo anche 15) anni il nemico di Hollywood si è palesato in tutta la sua violenza. Internet.

Quello che un tempo era una cosa da nerd ora è uno strumento diffuso e utilizzato da circa 4-5 miliardi di persone.

Scomponiamo la minaccia, perché il tema ha più problematiche che Hollywood, sin’ora, non è stata capace di affrontare.

Mercato Usa decrepito

Il mercato domestico di Hollywood è in sofferenza. I Gen X sono a corto di soldi e non vedono di buon’occhio spendere 20 dollari e più per un film. Rispetto al passato le vendite sono crollate. Ai vecchi tempi le major puntavano sia sulle vendite dei botteghini che sulla distribuzione dei dvd. Oggi, grazie anche a internet, chi se la sente di spendere 20-30 dollari per un dvd (appena uscito)? Sarebbe pura follia.

Millennials

La generazione più infedele che esista. Difficile capire cosa vogliono, e soprattutto cosa consumano (per quanto di base sia una generazione povera, usa a spendere poco per mancanza di soldi). Sono frammentati come schegge di uno specchio frantumato. Riuscire a tracciare una o più classi a cui “ancorare” dei film specificamente sviluppati per loro è sfidante e richiede molta intelligence (tanto per chiarirci, dati). Intelligence che Hollywood non possiede.

Mercati stranieri

Per compensare le perdite in patria le major di Hollywood devono per forza cercare nuovi mercati. Ma c’è un problema. Ancora l’intelligence che manca. Siamo sicuri che “Henry ti presento Sally” possa essere un successo in Cina? In India o in Africa? In ognuno di questi continenti (per non dimenticare i semi culturalmente colonizzati America Latina ed Europa) esistono regole sociali, economiche e relazionali differenti. L’ironia e l’approccio americano può funzionare? Difficilmente. Se siete una major del cinema di Hollywood, con produzioni da centinaia di milioni come potete risolvere questi tre problemi? Semplice. Si abbassano i livelli di entrata e di diffusione culturale. In pratica semplificare (quasi a livello infantile) ogni produzione di contenuti (sia essa film o telefilm) e puntare ad un classico mix di: eroe maschio eroe femmina, distruzione di città (quasi sempre americane) o mondi, tante esplosioni e effetti speciali (terribilmente costosi). Non esattamente film di fantascienza sottili e intimisti come “Moon” ma blockbuster che portano a casa grassi incassi.

Pensiamo, sempre in ambito di fantascienza, ad un esempio francese. Valerian e la città dei Mille mondi. Un ottimo film con un grande regista (Besson). Tuttavia una debacle al botteghino. Perché? La serie di fumetti da cui è tratto è molto famosa in Francia (un paese di 50-60 milioni di cittadini) ma in America è pressoché sconosciuta. Questo, unito ad una strategia di marketing poco chiara, e una scarsa “educazione” preesistente del pubblico americano ha di fatto sancito la fine di quello che Besson sperava essere una saga nascente. Se è stato cosi difficile far accettare ad una cultura occidentale (americana) un blocco di fantascienza tutto laser e eroine sexy, pensate come possa essere più complesso per un film americano sbarcare in continenti con una storia culturale così differente. Di qui la necessità di appiattimento dei contenuti.

Il modello “saghe & eroi” funziona, ma ha in sé il seme della sua distruzione. I budget sono elevati (e ogni episodio successivo della saga di solito costa un po’ di più per mantenere l’hype) e la scarsa conoscenza dei clienti (e dei mercati non americani) non permette di differire tanto dalla trama. In pratica ogni episodio successivo della saga sembra quasi un clone di quello precedente (alla lunga la cosa può stancare).

Hollywood può permettersi di “testare sul campo” un numero di film a basso budget e, potenzialmente, ottenere la “perla” che diventerà una saga? In teoria sì, ma la pressione finanziaria su ogni singola operazione è tale per cui fare test non è un approccio ideale.

Potenzialmente Hollywood può andare a fare shopping nei festival dei film indipendenti. Tuttavia anche in questo caso senza una vera visione dei dati dei suoi spettatori, andare a fare cherry picking nei mercati degli indipendenti è pur sempre un rischio.

La distribuzione, un tempo solo uno strumento fisico, grazie ai big data è divenuta un asset strategico.

E qui arriva la nemesi di Hollywood.

La paura di Hollywood per i big data è identica al terrore che prende alla gola il mondo della finanza retail (banche e assicurazioni) oppure il mercato dell’hospitality.

Facciamo un esempio in un settore meno “prevedibile” come il turismo.

Tralasciando per un attimo il fattore “airbnb” e simili consideriamo i semplici hotel (catene e realtà a gestione familiare).

Fino a pochi anni fa i commerciali di Booking.com (tanto per fare un nome) andavano nelle singole fiere del turismo supplicando i marketing manager o i direttori commerciali dei gruppi di hoteliers di “dar loro in gestione delle camere da affittare”. Ai tempi Booking & Co era considerato più che altro una realtà naive, nulla di serio, ma (pensiero dei direttori commerciali dell’epoca) “se potete piazzarmi qualche camera in più con queste cose di internet, perché no!”.

Oggi se una catena di hotel o un singolo hotel vengono “unplugged” dalla rete (tolti dalla lista di hotel prenotabili dagli utenti) di Booking.com (e simili gruppi) sono di fatto morti. In tal senso potete trovare un’analisi interessante qui.

Il rischio semplice è che se un hotel viene rimosso dagli OTA (Online Travel Agent), l’operatore (Booking.com) conoscendo tutti gli interessi del suo cliente potrà suggerire un’alternativa per l’hotel “non più disponibile” invogliando il potenziale cliente con sconti.

Conoscere il proprio bersaglio è il motto dei big data players (un inizio di strategia effettiva di big data, in ambito cinema, si può situarla intorno al 2012, come riporta il sito di Gigaom qui). Cominciando con il timido (ma pericoloso) Netflix sino ai grandi fratelli Amazon e Facebook, i big data player sono pronti a ingoiare Hollywood.

È di pochi giorni fa l’annuncio che Facebook lancerà una piattaforma video.

Se Netflix e Amazon, con le strategie di valorizzazione di dati, fanno paura, Facebook è un vero e proprio incubo.

Prendiamo il successo del recente Stranger Things. Un mix ben congeniato tra Goonies ed ET (per fare contenti quelli della Generazione X) che miscela con successo operazioni di revamping nostalgia con analisi di dati. I big data player possono permettersi di frammentare e valorizzare i dati ad un livello che Hollywood non può fare (finora almeno).

Non dimentichiamo che Facebook, Google, Amazon hanno 10-15 anni di “dati” che hanno acquisito. Netflix un po’ meno.

Se Stranger Things potrebbe essere considerato un colpo di fortuna, pensiamo al 2013 quando venne lanciato, sempre da Netflix, House of Cards.

Una scena dalla serie Stranger Things

Una scena dalla serie Stranger Things

Allora, in una intervista al NYT Jonathan Friedland (responsabile della comunicazione) spiegava cosi il successo del progetto: “Abbiamo una relazione diretta con i consumatori, sappiamo cosa le persone vogliono vedere e questo ci aiuta a capire quanto sarà l’interesse per un dato show. Ci dà la confidenza che possiamo avere un pubblico interessato e reattivo per un progetto, per esempio, come House of Cards.

In aggiunta, film e serie tv in streaming sulla piattaforma sono disseminate di centinaia di tag, metadata descriptors — che permettono di indicare con maggior precisione gusti e interessi. Grazie a queste analisi ora Netflix è in grado di commissionare contenuti originali perché “sa cosa la gente vuole prima che (la gente stessa) lo sappia” concludeva Evers, direttore generale della comunicazione.

Hollywood ha tutti questi dati, e soprattutto la capacità di calcolo per elaborarli? No. Potrebbe succedere in futuro? Possibile. È di qualche giorno fa la notizia che Disney dal 2019 abbandonerà la distribuzione dei suoi contenuti via Netflix e userà una piattaforma proprietaria. In Borsa la notizia ha avuto un contraccolpo e le azioni dei due gruppi sono oscillate.

La scelta di Disney è la prima mossa che segna il risveglio delle major? Difficile a dirsi. C’è da ricordare che di recente Disney ha acquistato una saga moderna (Guerre stellari) e ha tutto l’interesse di fare leva su questo brand: dai giocattoli ai parchi tematici.

L’operazione di distribuzione “in casa” permetterà a Disney, ottimisticamente, di acquisire dati prima mancanti, e poter pianificare con miglior efficacia le sue strategie di marketing sia per il mondo contenuto che per l’intera galassia di servizi di intrattenimento della casa di Topolino.

Resta tuttavia da considerare se il tempo sia dalla sua parte. Come già menzionato i Big Data players hanno avuto 10-15 anni di dati su cui costruire le loro strategie. Un tempo infinito nel mondo dei dati (che si misura in secondi non in anni).

È possibile che le altre major possano creare internamente una soluzione simile a Disney? Oppure che possano delegare questo servizio ad altri? Esistono due gruppi “antichi” che potrebbero essere una soluzione: IBM e Microsoft. Entrambe si sono di recente affacciate al mondo dei big data. Per assurdo pur essendo molto più antiche di Amazon, FB & Co, sono molto più lente. Microsoft solo di recente ha cominciato a vendere servizi cloud, e IBM, con il suo Watson, sta cercando di rifarsi un brand. Queste due realtà potrebbero essere adatte per Hollywood. Sono estabilished, credibili, entrambe americane e desiderose di rifarsi un look.

Se un’industria vecchia di 100 anni riuscirà a dialogare con dei vecchi colossi in cerca di nuove esperienze è tutto da comprendere.

Sino ad oggi l’unica soluzione che Hollywood ha trovato per combattere i Big Data player è stato arruolare i super eroi delle saghe. Tuttavia è una soluzione temporanea, e dopo tutto, come Superman ha recentemente dimostrato, anche i super eroi possono fallire e morire.

Twitter @EnricoVerga