Salute, il prezzo (alto) che paga la classe media globale emergente

scritto da il 26 Ottobre 2017

Chi è mosso da buoni sentimenti non può chiudere gli occhi se non per l’orrore. Nove milioni di morti. Questo è quello che è costato l’inquinamento nel 2015 in termini di vite umane secondo un report pubblicato dalla Lancet commission on pollution and health. O almeno questo è il dato che nell’era dell’informazione veloce, sensazionale e social ha penetrato l’opinione pubblica come un fendente. Ma giusto per il tempo di sentirsi in colpa, comprare un prodotto ecosostenibile, magari fare una donazione a una charity medica, e poi dimenticarsene con un bel selfie. Molto probabilmente, però, queste vite sono le vittime di una visione stanca del mondo, o per dirla con Frédéric Bastiat, di quello che si vede, e non di ciò che non si vede. E la colpa sembra essere la nostra.

La globalizzazione ha tirato fuori dalla povertà, dalla malnutrizione e da epidemie endemiche oltre due miliardi di persone, quella classe di popolazione mondiale che Branko Milanovic chiama “la classe media globale emergente”. Nel suo ultimo libro (Luiss university press, Ingiustizia globale, pp.221, 24 €) l’ex capo economista della ricerca alla Banca mondiale e studioso delle diseguaglianze spiega che dal momento in cui è caduto il muro di Berlino e la rivoluzione delle comunicazioni ha consentito alle economie avanzate di approvvigionarsi di manodopera a basso costo senza perderne il controllo, l’economia interconnessa si è estesa a Paesi che prima non ne facevano parte. Questo ha generato un fenomeno complesso, e come tale, la globalizzazione, presenta le sue ambiguità. Facendo vincitori alcuni e perdenti altri.

Descrizione del guadagno relativo percentuale nel reddito familiare registrato tra il 1988 e il 2008 (Ingiustizia Globale, Branko Milanovic)

Descrizione del guadagno relativo percentuale nel reddito familiare registrato tra il 1988 e il 2008 (Ingiustizia Globale, Branko Milanovic)

Da un punto di vista strettamente economico a guadagnare è stata proprio la “classe media globale emergente” che dal 1988 al 2011 ha mediamente più che raddoppiato il proprio reddito. In Cina, ad esempio, in venti anni “i due decili mediani (il quinto e il sesto della distribuzione del reddito ndr) della Cina urbana e rurale vedono il reddito reale moltiplicato rispettivamente di 3 e 2,2 volte”. Diversamente è andata per la classe di redditi medio bassi del mondo sviluppato. Chi appartiene ai cinque decili più bassi della distribuzione del reddito tedesca nello stesso intervallo di tempo ha guadagnato tra lo zero e il 7%, mentre il Giappone vede un calo del reddito reale dal 3 al 4%.

Questo è quello che si vede: perdenti le economie atlantiche e vincenti le asiatiche. Miliardi di individui hanno migliorato le proprie condizioni di vita: hanno accesso alla sussistenza calorica quotidiana, alla scolarizzazione, a cure che prima erano loro negate per malattie trasmissibili. Questo soprattutto grazie all’aumento del reddito disponibile. Ma quello che non si vede, come denuncia il rapporto di Lancet, il 92% di quei nove milioni di morti causati dall’inquinamento nel 2015 si concentrano proprio lì, fra i vincitori. Per la rivista medica i driver di questo peggioramento delle condizioni di salute sono in primo luogo la crescita delle città (nelle quali risiede il 55% della popolazione mondiale e l’85% delle attività economiche), l’uso di energia non pulita, la deforestazione, così come l’uso di sostanze chimiche tossiche e le automobili con propulsore a combustibile fossile.

gdblancet

Per i paesi in via di sviluppo si può parlare di una tassa occulta, una sottrazione di risorse già disponibili e di depauperamento del capitale umano. Curare tumori ai polmoni, oltre che difficile, in quei Paesi è costoso. Così come l’esposizione dei giovani al piombo e al mercurio causa una perdita netta del quoziente intellettivo diminuendo drasticamente quella che potrà essere la loro produttività. Quei soldi che oggi si spendono e quelle risorse che oggi vengono sottratte dai danni dell’inquinamento, potrebbero essere impiegati in tutti i modi in cui gli individui e le loro organizzazioni riterrebbero più opportuno.

Il rapporto di Lancet, però, non è un appello al pauperismo che trova appiglio nella stanca economia italiana. Ma anzi afferma che “l’inquinamento non è la conseguenza inevitabile dello sviluppo economico (…) strategie e mezzi per il controllo delle emissioni possono oggi essere esportate in paesi e città”, anche a bassi livelli di reddito. I paesi e le città asiatiche e subsahariane a rapida industrializzazione non sembrano poter ripetere il percorso delle economie continentali nella seconda metà dell’Ottocento: riuscire a sfruttare il gap di tecnologie che si era stabilito tra la pionerìstica Inghilterra e gli altri Paesi. I paesi dell’Europa continentale, semplificando al massimo, facevano tesoro degli errori commessi dai cugini inglesi e dall’avanzamento generalizzato della frontiera della conoscenza, riuscendo così ad agganciare il treno dell’industrializzazione.

Anche noi in quegli anni commettevamo errori, ma oggi sappiamo che è bene non installare una fabbrica metallurgica o delle concerie in prossimità di un centro abitato. Questo fenomeno di “spill over” non sembra essere avvenuto per i Paesi in via di sviluppo, che hanno regolamentazioni e legislazione lasche sotto l’aspetto della salvaguardia ambientale e della salute dell’individuo. Far sviluppare loro, anche se siamo indietro (soprattutto anche noi), questo tipo di sensibilità potrebbe portare a guadagni sensibili. Accenture ha calcolato che uno sviluppo dell’economia circolare, quel paradigma che nella produzione non vede scarti, ma risorse da impiegare altrove, genererebbe nuove risorse per 4.500 miliardi di dollari a livello globale entro il 2030.

Face masks were placed on stone monkeys at the Beijing Zoo on Dec. 19 to protest heavy air pollution in northeast China. A week earlier, riot police cracked down after artists put similar masks on human figures in Chengdu.

Maschere antismog allo zoo di Pechino

Non si può certo ingerire nelle scelte che uno Stato sovrano (non sempre democraticamente) compie, ma potremmo mettere delle condizioni stringenti per i progetti di aiuto allo sviluppo che continuiamo a indirizzare. Ad oggi prescrizioni praticamente assenti nei bandi di assistenza allo sviluppo di Nazioni Unite, Commissione europea e Banca africana dello sviluppo. Non sarebbe poca cosa, basti pensare che i Paesi avanzati hanno trasferito alle comunità in via di sviluppo 143 miliardi di dollari nel 2015 e hanno una previsione a cinque anni di 315 miliardi di dollari. Chiedere che vengano rispettati determinati standard non è lesa maestà, né mettere il bastone tra le ruote allo sviluppo. È cominciare a ragionare in termini razionali. Sostenibili per tutti noi, ma soprattutto un’opportunità per l’economia.

Twitter @millegaribaldi