Il bitcoin, bolla o soufflé?

scritto da il 17 Dicembre 2017

L’autore di questo post è Carlo Piana, avvocato milanese, fondatore di Array; si occupa di diritto dell’Information Technology, in particolare di software libero e open source. L’autore ringrazia il professor Riccardo Puglisi dell’Università di Pavia per i preziosi suggerimenti –

Da fenomeno quasi cyberpunk, Bitcoin è diventato fenomeno di massa, decuplicando il suo valore in dollari (già in odore di bolla) nel giro di poche settimane. Se molti operatori avevano già visto nella tecnologia che vi sta alla base, la “blockchain”, un’interessante fonte di applicazioni in campi diversi, l’attenzione anche mediatica che Bitcoin ha ricevuto ne ha fatto un oggetto di discussione in sé, concentrandosi soprattutto sulla domanda “ma se non rappresenta niente, non ha un valore intrinseco, perché la gente paga così tanto per averlo”? La mia risposta è “non deve rappresentare niente, perché è una moneta”. Esperti veri nel campo mi hanno ribattutto “no, non può essere una moneta” con svariate obiezioni, che mi sforzo qui di contestare, offrendo una visione alternativa di una possibile teoria su cosa sia il Bitcoin o in generale una criptovaluta.

Già nel 2014, in una presentazione che tenni in un convegno di operatori dell’e-commerce, definii il Bitcoin una bolla, ma una bolla per essere tale dovrebbe essere fatta principalmente d’aria e poi scoppiare. Il Bitcoin per ora si comporta come una bolla, ma se scoppierà o non scoppierà dipenderà, secondo me, principalmente dal fatto se adempierà al suo compito di essere “denaro”. Ecco che la risposta alla domanda iniziale è fondamentale anche per tentare di prevedere che fine farà Bitcoin.

“Tentare”: non abbiamo infatti mai assistito, che io sappia, al fenomeno della creazione dal nulla di una nuova moneta, per giunta su paradigmi diversi da quelli della moneta tout court. L’euro, per dirne una, ha dovuto affrontare un serio problema di neutralità, con un lungo processo di avvicinamento tra diverse economie, una raggiunta stabilità dei cambi reciproci, regole ferree sulla conversione, un periodo di coesistenza prima come moneta scritturale, poi come circolazione parallela di moneta fisica.

Il Bitcoin in due parole: ledger e blockchain

Definire il Bitcoin senza descrivere la tecnologia, piuttosto complessa, su cui si basa, è tutt’altro che facile. Lo descriveremo dunque in un modo sufficientemente approfondito da consentirci di esaminarlo nel suo funzionamento, e dunque qualificarlo socialmente, economicamente e giuridicamente come merita.

Il Bitcoin di per sé non esiste, è un’unità di conto all’interno di un sistema di contabilizzazione delle transazioni. In inglese questo sistema di contabilizzazione si definisce “ledger” (“libro mastro”). In un ledger vengono registrate operazioni attive (introiti) e operazioni passive (spese). Chi accetta di entrare nel sistema Bitcoin, operandovi, accetta una fondamentale premessa: quando A paga B, una quantità di unità di conto viene sottratta al conto di A e aggiunta a quello di B. B potrà quindi a sua volta spendere quella quantità, o parte di essa, finché il suo gruzzolo non sia esaurito. In ciò, il sistema dei Bitcoin è simile a quanto facciamo con il nostro conto corrente: le banche sono d’accordo che se A paga B la banca Alfa registra un’operazione in uscita sul conto di A e la banca Beta registra un’operazione in entrata sul conto di B; A avrà una quantità corrispondente in meno sul suo conto, B una quantità corrispondente in più sul suo, meno o più le commissioni, se applicate. Il Bitcoin realizza la stessa operazione, ma senza l’intermediazione della banca. Una transazione in Bitcoin non differisce, contabilmente, da un bonifico, ma senza un terzo che garantisca la genuinità della scrittura.

La banca (così come l’intero sistema bancario e finanziario) è regolamentata, è sottoposta a verifiche, dà garanzie (tutto sommato) di non consentire ‒ ad esempio ‒ che A non paghi B e poi C con la stessa quantità di denaro o ‒ detta in altro modo ‒ non spenda più di quanto risulti dal conto corrente; risponde in proprio se non assolve a questa funzione di mandatario e garantisce, in caso, l’esposizione concessa. La legge e il sistema consentono di avere fiducia nel fatto che un’operazione meramente scritturale abbia un fondamento economico e giuridico, ovvero costituisca un pagamento, laddove si tratta semplicemente di una coppia di registrazioni contabili. Se eliminiamo la banca dall’equazione, abbiamo due “pari” che non si conoscono. La fiducia nella genuinità di questa transazione non è più nel terzo intermediario, ma è affidata a un complesso sistema di software e algoritmi peer-to-peer e open source, concepiti per dare pubblica fede alle transazioni.

Introduciamo allora la tecnologia fondamentale dove questa operazioni vengono registrate, chiamata “blockchain”. Come dice il nome, “blockchain” è una catena di blocchi. Questi blocchi contengono, nel loro insieme, il totale di (quasi) tutte le transazioni in dare e avere che sono intervenute sino a quella data. La blockchain, in altre parole, contiene il ledger. In pratica, il ledger viene scritto non su un registro contabile, ma su uno o più di questi blocchi che vengono creati, pubblicati e distribuiti in una rete peer-to-peer su Internet. Rete aperta a chiunque intenda partecipare ed estremamente democratica. Tutti sono in grado di sapere quanto resta nel “conto” di un determinato identificativo, calcolando attraverso quanto risulta nella blockchain tutte le operazioni in entrata e tutte le operazioni in uscita.

Come si genera la blockchain, come si registrano le operazioni, il “mining” e l’hash

La blockchain è dunque il modo in cui viene conservato, pubblicato e distribuito il ledger. Più o meno ogni dieci minuti l’insieme dei vari nodi su Internet produce ‒ secondo regole predefinite ‒ un particolare blocco, che si “incastra” alla fine della catena dei blocchi già esistenti, e a sua volta il prossimo blocco si aggancerà a quello appena creato. Questo blocco ha un suo “payload” (informazione veicolata) che consite in una serie di transazioni già avvenute, ma non ancora pubblicate e dunque non validate.

La continuità di questi blocchi viene garantita dal fatto che un blocco contiene informazioni univoche relative al blocco precedente. A sua volta, il blocco successivo conterrà informazioni univoche rispetto al blocco in esame. Tutti i nodi ‒ se vogliono ‒ concorrono alla scelta di quale blocco viene “accettato” come il prossimo, tale scelta viene effettuata tramite un consenso implicito tra tutti gli operatori, i quali convergeranno su un’unica catena, anche nel caso, improbabile ma non impossibile, che due operatori “scovino” il prossimo blocco contemporaneamente.

Qui viene la parte interessante. Ho parlato di “scovare”, ma in realtà l’espressione dovrebbe essere “scavare”. Infatti questa attività si chiama “mining”. Abbiamo detto che il blocco contiene una serie di transazioni avvenute, ma non ancora validate, e per essere validate devono essere inserite in un blocco accettato. Per essere accettato, il blocco deve rispondere a determinate caratteristiche, calcolate matematicamente, ovvero deve contenere solo transazioni corrette e risolvere una specie di “indovinello”, un quesito matematico molto particolare. È una specie di caccia al tesoro, in cui ogni indovinello risolto porta all’indovinello successivo, e non è possibile conoscere l’indovinello successivo se non si è prima risolto l’indovinello precedente. Chi dimostra di aver risolto l’indovinello (“proof-of-work”) viene premiato con la ricompensa associata a quel blocco e tutti passano quanto prima all’indovinello successivo. Vedremo dopo qual è la ricompensa.

L’indovinello ha le sue regole. Ogni blocco viene formato da un’insieme di informazioni che vengono scritte come puro testo, secondo un ordine e regole di composizione determinate. Una di queste informazioni è un insieme di caratteri che identifica univocamente il blocco precedente, calcolato matematicamente secondo una funzione precisa che si chiama “hash”. Questa funzione è particolare: restituisce sempre per ciascun blocco (può essere un file, ma non necessariamente) una e una sola “impronta”, una stringa di caratteri esadecimali (da zero a nove e da a ad f) di lunghezza predeterminata, qualunque sia la dimensione del file. Non solo. Qualsiasi modifica, anche infinitesimale al file, genera un’impronta completamente diversa.

Un esempio chiarirà visivamente di cosa si tratta. Ad esempio, usando l’algoritmo SHA256, la frase:

tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino

genera un’impronta di hash (o semplicemente “hash”)

7f14c0f5a28d9f014c8a4c69735ed27abe7f3b28af887367afade4e7138154fc

Se uso la maiuscola all’inizio, e dunque

Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino

ottengo:

c61431b3b579ae2d97106ff8f7ab6aa46f9f4a41262da9c6c7fbfea7221e288a

Predire come sarà un hash è dunque praticamente impossibile, perché ogni minima modifica del blocco originario genererà un hash completamente diverso. L’hash, in sé, non ci dà nessuna informazione su come sia il file che lo genera, né quanto è grande, né cosa contiene.

Qui viene il puzzle. Come detto, non posso prevedere né forzare in maniera calcolabile come sarà l’impronta hash. Se chiedo che qualcuno mi dia un testo la cui impronta di hash contenga in qualsiasi posto due “a” consecutive, lui probabilmente prenderà blocchi arbitrari di testo fino a che non ne troverà per caso uno con due “a” consecutive: nell’esempio di sopra ci sono arrivato al secondo tentativo. Allora complico il problema: chiedo di trovare un blocco che abbia due “a” all’inizio dell’hash. Magari il candidato ne troverà uno dopo cento tentativi (16 al quadrato=256 combinazioni possibili). Se gli impongo di trovare un blocco che abbia sedici zeri (16 alla sedicesima = 1,844*10 alla diciannovesima combinazioni, ovvero circa diciottomila milioni di miliardi di combinazioni) ci metterà ben più di una vita. Anzi no, lo fa fare a computer superpotenti che lo faranno per lui, suddividendosi i compiti.

Questo è in pratica l’indovinello: trovare un blocco che generi un hash che abbia un certo numero di zeri all’inizio e che contenga tra le altre cose l’impronta hash del blocco precedente. Una di queste informazioni è dunque disponibile solo a partire da un certo momento. Lo sparo dello starter può avvenire solo quando uno dei nodi ha immesso in rete la sua soluzione, e questa soluzione è accettabile. Da lì posso partire.

Siccome l’algoritmo è fatto per generare un blocco in media ogni dieci minuti, ho solo dieci minuti per risolvere l’indovinello, il quale è già oggi estremamente difficile. E diventa sempre più difficile con l’aumentare della potenza di calcolo totale impiegata per risolverlo: se l’indovinello si dimostra troppo facile, automaticamente la difficoltà viene fatta aumentare (1).

Un’attività ricompensata

Perché uno dovrebbe correre così tanto (e investire sostanziali risorse)? Perché questa attività ha una sua ricompensa. La ricompensa è un certo numero di Bitcoin, numero che viene però dimezzato a certi intervalli. Al momento la ricompensa è di 12,5 Bitcoin.

Chi dunque ha “vinto” i Bitcoin, li può spendere. Solo lei avrà infatti la chiave privata per validare una transazione e disporre che una frazione di Bitcoin (o l’intero) passi a un altro identificativo, il quale incamererà il trasferimento.

Ciò crea la “provvista” iniziale per tute le transazioni successive. Se nel sistema “fiat money”, ovvero la moneta di Stato, è il sistema bancario a “creare” moneta, al di là di quella stampata dalla Banca centrale, qui la moneta si “genera” da sola, viene “scavata”, appunto, e immessa nel sistema, in una quantità predeterminata. Come detto, la ricompensa si dimezza dopo un certo numero di Bitcoin minati, e così via. Il limite teorico è di circa ventuno milioni. Questa è una caratteristica essenziale.

Registrare ogni singola transazione rispettivamente in entrata e in uscita è ‒ abbiamo visto ‒ lo scopo essenziale di tutta l’attività di cui abbiamo parlato sinora. La detentrice originale che ha con successo immesso il blocco e ricevuto la ricompensa, ha indicato nel ledger la chiave pubblica necessaria a verificare che lei e solo lei può spendere i Bitcoin ottenuti. Per effettuare il trasferimento, essa immetterà nel sistema una transazione in cui afferma che intende trasferire una porzione del portafoglio di Bitcoin in cui ha ancora una quota, ad un diverso identificativo pubblico, e “firmerà” tale transazione con la propria chiave privata. Tutti potranno vedere che questa transazione è valida, compresi i minatori all’opera per il prossimo blocco, i quali dunque prenderanno questa transazione, verificheranno che è formalmente ineccepibile, la “provvista” sussista, e la useranno appunto come materiale per creare il prossimo blocco.

Una volta validata (inserita in un blocco che viene accettato nella blockchain), la convenzione è che il trasferente non potrà più trasferire quella parte di Bitcoin che ha registrato (no double spending), e che il nuovo possessore potrà essere parte cedente in una nuova transazione, per l’intero o la frazione. Il tutto in una sequenza infinita, continua e tutta registrata sulla blockchain, a disposizione di tutti e sotto gli occhi di tutti. L’identità del nuovo titolare è data, lo ricordiamo ancora, dalla chiave pubblica. Anche qui solo chi ha la chiave privata corrispondente a quella chiave pubblica a cui è intestata la frazione di Bitcoin registrata in entrata potrà spenderla o effettuare altre operazioni sul ledger. Se uno perde la chiave privata corrispondente al suo identificativo pubblico, non potrà spendere la parte di Bitcoin che rimangono ancora non spesi. Quella parte di Bitcoin sarà persa per sempre, nessun altro potrà spenderla.

Una volta che tutti i Bitcoin saranno minati, la ricompensa non sarà più in nuovi Bitcoin, ma nella “fee” offerta dalle parti nella transazione a chi immetterà quella transazione in un nuovo blocco. Ciò determinerà (dovrebbe determinare) un incentivo a continuare a minare nuovi blocchi nella blockchain e contribuirà dunque a mantenere attivo il ledger. Infatti, per avere la registrazione con priorità rispetto alle altre avvenute contemporaneamente, può essere fornita una ricompensa per il minatore che la inserirà nel blocco che si appresta a minare. Più è alta, più chance si avranno che la transazione venga pubblicata prima.

A chi è venuto in mente?

Un autore pseudonimo, Satoshi Nakamoto, ha concepito la criptovaluta e assemblato gli strumenti open source, pubblicando un white paper, che consiglio a tutti di leggere prima di parlare di Bitcoin. Se ci si prende la briga di farlo, si scopre che l’intento dichiarato è di creare un sistema di regolazione dei pagamenti (distributed ledger), altrimenti detto “moneta”.

Il paper analizza il fatto che la moneta attuale si basa su fiducia e convenzioni verso le istituzioni finanziarie (banca centrale, banche, eccetera), terzi “fidati”, a cui propone di sostituire la crittografia e un sistema peer-to-peer di verifica e validazione del ledger basato su algoritmi e software open source. La funzione principale del Bitcoin è dunque quella di trasferire valore in una transazione, scrivendo la transazione in Bitcoin all’interno di un complesso e completo sistema di regolazione. Al compimento della transazione (che chiameremo pagamento) il risultato sarà che la quantità trasferibile di Bitcoin del cedente sarà diminuita di quella quantità (e della fee) e corrispondentemente la quantità trasferibile di Bitcoin del cessionario sarà aumentata.

Il paper descrive il sistema come segue:

The steps to run the network are as follows:

1- New transactions are broadcast to all nodes.

2- Each node collects new transactions into a block.

3- Each node works on finding a difficult proof-of-work for its block.

4- When a node finds a proof-of-work, it broadcasts the block to all nodes.

5- Nodes accept the block only if all transactions in it are valid and not already spent.

6- Nodes express their acceptance of the block by working on creating the next block in the chain, using the hash of the accepted block as the previous hash.

Moneta o commodity?

Ma allora perché tutti dicono che è una commodity?

Perché non sanno quello che fanno! (semicit.)

In realtà pure io la definisco ‒ almeno al momento ‒ una commodity, per mancanza di migliore definizione. Perché viene trattata come tale, e non viene trattata come moneta da un numero sufficientemente ampio e importante di transazioni in Bitcoin. Ma ovviamente, allo stesso tempo non è una commodity. Una commodity è un bene fungibile che compro e vendo unicamente per la sua quantità e qualità, ma pur sempre un bene che viene commercializzato, in fondo, per una sua funzione intrinseca.

Alcune commodity sono naturalmente consumabili (greggio, succo d’arancia), altre non lo sono necessariamente (oro, diamanti). Il Bitcoin potrebbe dunque essere assimilato, appunto, all’oro. L’oro ha un valore stabile (più o meno), è facilmente divisibile (più o meno), ha un potere di trasferimento del valore per unità di massa abbastanza alto. Però non esiste un sistema facilmente accessibile in cui io posso scambiare oro con un soggetto diverso, arbitrario, disposto ad accettare la transazione come una forma di pagamento per un’operazione sottostante.

In ciò il Bitcoin è sicuramente diverso e più simile non solo a una moneta, ma a una moneta e a un sistema di trasferimento finanziario e di enforcement dei pagamenti. Dunque una moneta, uno swift e un sistema di banche, tutto “privato” (nel senso, appartenente ai protagonisti della transazione e ai pari). L’oro non può essere usato direttamente per pagamenti, se non a prezzo di operare su mercati particolari e basandosi sulla fiducia negli intermediari che lo trattano. Si può trasferire materialmente, ma con relative truffe a portata di mano. Non è completamente liquido e il suo stoccaggio comporta costi non indifferenti.

Chi investe soldi comprando Bitcoin lo tratta esattamente come una commodity, in quanto si aspetta che cambi di valore (in questo caso, ne accumuli). Ma per chi lo usa per trasferire un valore, come mezzo di pagamento, questo è un accessorio scomodo. L’estrema volatilità del sistema è uno dei più evidenti freni alla diffusione del Bitcoin per la sua funzione principale. Non sappiamo se mai questa funzione si avvererà, ma è certo che in questa fase storica non posso sapere se fra venti minuti il Bitcoin sarà aumentato o diminuito di una percentuale importante del valore che il prezzo fissato esprime. In questa contingenza, potrò esprimere prezzi solo in una diversa moneta (e allora Bitcoin diventa solo un mezzo per trasferire quella quantità di moneta). Anche così devo completare la transazione in brevissimo tempo, comprando la necessaria quantità di Bitcoin, spendendoli quanto prima (a meno che non voglia speculare). Ma non è possibile sapere entro quanto io riceverò e potrò spendere i Bitcoin che mi sono stati trasferiti; nel mercato attuale è possibile che anche solo questo tempo comporti rilevanti variazioni nell’effettivo valore che riceverò.

Il Bitcoin non è però l’unica criptovaluta esistente, si possono usare già oggi criptovalute diverse (es.: Ethereum), meno volatili (lo sono?).

L’attuale successo “commerciale” del Bitcoin è al tempo stesso la causa del suo estremo fallimento, anche semplicemente come strumento di pagamento. Ciò non toglie tuttavia che in assenza di una così imponente componente speculativa non possa essere, almeno per una certa categoria di pagamenti, un valido strumento.

La volatilità, per definizione, impedisce la formazione di un sistema stabile di prezzi espresso nella “nuova” valuta (funzione di unità di conto).

È un fenomeno che da noi abbiamo osservato con il cambio all’euro: molti continuavano a fare il cambio mentale in Lire, anche dopo molto tempo. Un euro vale un euro, non vale 1936,27 Lire. Così, se non riesco a stabilire quanto valga un Bitcoin, se non passando attraverso una diversa moneta, allora esso non viene trattato socialmente come una moneta. La moneta è infatti nient’altro che un’unità di conto che rappresenta il valore a cui ciascuno è disposto a un determinato sacrificio, non è un valore in sé, sin da quando (e da molto) la moneta ha perso il suo valore intrinseco o di conversione in oro (ammesso che prima lo avesse).

L’impossibilità di usare una moneta come un elemento di un affidabile sistema di prezzi non è dunque discriminante (anche se è importante). Così come non è discriminante il fatto che non assolva a unità di conto per l’accumulazione di valore, che come sappiamo è una considerata una funzione base della moneta. È evidente che, pur importante, tale funzione non possa essere essenziale per qualificare qualcosa come moneta. Infatti, lo stesso fenomeno che previene l’accumulazione di valore si riscontra, in senso opposto, in caso di iperinflazione. In uno scenario di iperinflazione, ma anche di inflazione non contenibile né prevenibile, si osserva che i prezzi cambiano in maniera vistosa col passare del tempo, a volte letteralmente dalla mattina alla sera.

Se quella che sappiamo essere una funzione essenziale di una moneta a volte non si rinviene in monete “vere” (con valore legale), viene il dubbio che tanto essenziale non sia; sorge quindi spontanea una domanda più radicale.

Cosa rende una moneta una moneta? Considerazioni sociali e valore solutorio del Bitcoin

Il Bitcoin ci costringe a riconsiderare, ancora una volta, cosa sia effettivamente una moneta. Dico ancora una volta, perché un tempo la moneta era un conio di materiale. Si pensava “vale perché è metallo”. Ma in realtà anche allora aveva un valore di scambio, più che intrinseco, perché difficilmente il denaro veniva fuso per usarlo. La sua funzione implicita era quella di rappresentare un valore convenzionale di scambio, facilmente accumulabile, e facilmente spendibile (liquido) in un sistema di prezzi condiviso, trasportabile, accumulabile con relativa facilità.

In realtà, si può affermare che la moneta, dal punto di vista di chi la usa per ogni singola transazione, sia un contratto implicito. Quando pago qualcosa, chi compra e chi vende riconoscono nel mezzo di scambio un valore che parametrano rispetto a tutti gli altri valori, nella decisione sul quale prezzo fissare, oppure se e quanto commerciare in base a un prezzo eterodeterminato. Chi compra e chi vende sa che con quell’unità di conto si possono facilmente comprare beni e servizi in una certa quantità. Non serve loro stabilire quanto valga in sé, perché ciò è implicito. La società, il sistema dei prezzi, ne determina il valore.

Un dollaro vale un dollaro. Un euro vale un euro. Quanto vale un dollaro in euro o vice versa, quello è un problema diverso.

In effetti, tra le cose che si possono comprare con un euro, esiste una moneta straniera. Ciò ci porta al discorso della moneta legale. Alcuni sostengono che il Bitcoin non sia moneta perché non ha corso legale. Ciò non potrebbe essere più falso, perché il corso legale non è un attributo necessario per una moneta. In certi paesi, soprattutto quelli ad alta inflazione, si genera un mercato parallelo in dollari. Vi è una dollarizzazione di fatto, che spesso è tutt’altro che legale, anzi, spesso è vietata, con pesanti restrizioni valutarie su chi può acquistare moneta straniera.

Anche in Italia, e nell’imperio del Codice civile (1942!), le obbligazioni in moneta non debbono affatto essere in valuta legale. Il Codice civile, anzi, è del tutto agnostico rispetto a quale sia la valuta correntemente avente corso legale. Si riferisce semplicemente a “moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento” (art. 1277). Ma non assegna affatto alla moneta avente corso legale l’esclusiva capacità di estinguere regolarmente un’obbligazione pecuniaria (o anche “debito pecuniario”).

L’art. 1278 si occupa delle obbligazioni di pagare in moneta “non avente corso legale”, riservando tuttavia una posizione di privilegio al corso legale, consentendo al debitore di pagare con l’equivalente in moneta corrente al momento della scadenza dell’obbligazione. Ma questa non è una regola assoluta: la regolamentazione pattizia può richiedere il pagamento effettivo in moneta non avente corso legale, purché essa sia “reperibile”. La norma non pretende affatto che la moneta in questione abbia valore legale in un paese qualsiasi. Il corso legale di un paese estero è del tutto irrilevante, perché l’unico corso forzoso che conta è quello dello Stato.

Da tutta la normativa è evidente che l’oggetto di un’obbligazione pecuniaria per far sì che l’obbligazione sia tale, nonché liquida ed esigibile (art. 1282) e dunque produttiva di interessi, è che l’oggetto stesso sia facilmente reperibile e abbia un tasso di cambio determinabile in maniera sufficientemente affidabile.

Certamente il legislatore in epoca bellica non aveva in mente il Bitcoin o una qualsiasi criptovaluta, ma ho pochi dubbi sul fatto che se una parte conviene con un’altra il pagamento in Bitcoin, l’obbligazione sia valida ed efficace, sia un’obbligazione pecuniaria e il trasferimento del Bitcoin abbia valore solutorio; il mancato pagamento in Bitcoin dà diritto al particolare risarcimento del danno dato dagli interessi legali (salvo prova di danno ulteriore, art. 1224).

Conclusioni

La moneta è un aspetto irrinunciabile della società complessa. Una società complessa tende ad avere una moneta e un sistema di prezzi rappresentato con essa sempre e comunque; nel caso, senza o contro le imposizioni di uno stato.

In generale, uno stato deve meritarsi l’uso della propria moneta attraverso una emissione controllata, attualmente per mezzo del sistema bancario e in genere quello dei crediti e della finanza, al fine di dare prevedibilità al valore della propria moneta in rapporto all’economia sottostante e varie circostanze (come il ciclo economico). Se non lo fa o non ci riesce, si creano problemi e frizioni nella società, che perde uno strumento essenziale, ovvero un sistema implicito di valori rappresentati da quella moneta, prevedibile nel tempo, tale da consentire che ciò che si è ricevuto con i pagamenti venga non solo rispeso, ma accumulato per consumi futuri. Come abbiamo visto, tale caratteristica viene meno in certi casi, cionondimeno quella divisa non perde di avere la qualità di essere moneta.

Unità di conto, strumento di pagamento, strumento di accumulazione del valore: il Bitcoin, è ovvio, oggi manca in praticamente tutti questi aspetti.

Se non raggiungerà una sufficiente stabilità, e dunque non sarà una moneta vera e propria, rimarrà esposto ai quattro venti della speculazione, e potrebbe anche perdere (o accumulare) eccessivo valore in tempi brevissimi, dimostrandosi una bolla. Se dovesse mai raggiungere la maturità e diventare currency, la bolla non scoppierebbe mai. Dunque, più che una bolla, è un soufflé. Un soufflé è un’ottima pietanza in potenza. Se si ammoscia è uno schifo, se si mantiene, è cibo sopraffino. Ma non sappiamo a che punto della lievitazione siamo e se il soufflé stia crescendo troppo in fretta, o se è solo un momento travagliato in una storia ben più lunga.

Twitter @carlopiana

NOTA

(1) In realtà questa è un’estrema semplificazione, in quanto trascura il “nonce” e il fatto che il blocco debba contenere la Merkle root, e una serie di altre particolarità, molto interessanti per chi voglia capire in profondità il mining e come si possa rendere efficiente il processo, ma qui causerebbero ancora più confusione e non sono necessari a dare l’idea della complessità del compito.