W l’errore: chi non sbaglia (bene) non cresce

scritto da il 30 Gennaio 2018

Mario Andretti diceva: “Se hai tutto sotto controllo, significa che non stai andando abbastanza veloce”. Quando si lavora si commettono errori. Si devono commettere errori. Se non si commettono mai errori significa che si sta andando troppo piano, che non si sta osando abbastanza e che in fondo si impara troppo poco.

Ovviamente, non stiamo parlando di tutti gli errori. Ce ne sono alcuni che NON possono essere commessi. Quali sono?

– Errori troppo grandi, ovvero che mettono in pericolo vite umane e/o la vita dell’istituzione per cui si sta lavorando

– Errori già fatti in passato e che si ripetono per una seconda volta

– Errori fatti perché si è stati pigri nel raccogliere le informazioni e fare le analisi a priori, che potevano essere evitati facilmente

– Errori fatti perché abbiamo affermato il “chi siamo” piuttosto che perseguire l’opzione migliore in quella situazione

schermata-2018-01-30-alle-12-53-29Cosa rimane quindi? Tutti gli errori commessi in buona fede, alla ricerca di buone decisioni e in cui esiste un’incertezza di fondo su quale sarà il risultato finale. Incertezza che non può essere diminuita con ulteriori analisi, oppure per la quale il costo delle analisi da fare (tempo e soldi) sia troppo grande rispetto ai rischi che si corrono.

Gli errori di questo tipo creano valore più che distruggerlo. La ragione fondamentale sta nella eliminazione di un pezzo di territorio delle possibilità, permettendo quindi a persone e istituzioni di focalizzarsi sul territorio ancora inesplorato. Un’istituzione che abbia commesso moltissimi errori, perlustrando parti molto consistenti del territorio possibile e che segua la regola dell’apprendimento dai propri errori (cioè li analizza, impara e non li ripete), sarà un’istituzione molto più efficace nelle proprie decisioni rispetto a una che non abbia provato a fare cose nuove, rimanendo nella propria zona di comfort.

Le istituzioni che tentano a tutti i costi di non commettere errori attraverso l’analisi delle scelte a priori sono vittime di un peccato di hybris: ritenere di poter modellizzare e analizzare il futuro in modo perfetto. È impossibile per molti motivi, ben studiati in letteratura:

– Una parte dei risultati è casuale

– L’essenza stessa della strategia è che altri reagiranno alle nostre azioni in modi imprevedibili

– È umano imparare molto di più quando si è sotto la pressione degli eventi

– Molte decisioni hanno a che fare con sistemi complessi che vanno dipanati un passo alla volta, attraverso euristiche che ne semplifichino il trattamento

– Solo la sperimentazione permette di imparare in modo solido a fare le cose: i business-plan, per esempio, servono come scenario-planning (giocare con i parametri per capire cosa succederebbe se…) ma sono una solenne presa in giro se vengono usati come elementi di predizione di quello che accadrà esattamente

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Gli errori hanno poi una componente psicologica molto forte, soprattutto a causa dell’educazione ricevuta da gran parte delle famiglie, scuole e università. Che di fatto hanno cercato di insegnare che “non si sbaglia”. Il risultato è che i ragazzi che hanno avuto una carriera scolastica brillante, escono con una difficoltà estrema nel lavorare usando gli errori come strumento di crescita. Credono che il loro riferimento ideale sia “la perfezione”, il non sbagliare. E per questo commettono il più strategico degli errori: non imparano alla velocità massima possibile. Per esempio non usano il classico principio dell’80/20, per ottenere il massimo con uno sforzo minimo: fai il 20% dello sforzo, mirato, per ottenere l’80% del risultato e viceversa. Gli errori tendono a essere eventi depressivi e quindi richiedono una forza di volontà molto spinta per essere digeriti e usati in modo positivo. Bisogna liberarsi largamente del senso di colpa: cosa che, come dice Nietzsche, è come “dare un morso ad un sasso”.

Matematicamente l’idea sottostante al principio di imparare attraverso molti piccoli errori giace nella crescita esponenziale della conoscenza. Quando gli errori sono considerati come strumento di lavoro, crescita e formazione, diventano pezzi della conoscenza che sollevano le azioni future in termini di valore. Anche se l’errore, localmente, rappresenta una perdita di valore, globalmente rappresenta un aumento di valore.

Se vogliamo persone e istituzioni forti dobbiamo costruire un’etica e una prassi dell’errore. Dobbiamo insegnare ai giovani a sbagliare bene e dobbiamo imparare a fare del risk-management in un’istituzione che sbaglia moltissimo un elemento centrale della competitività. E dobbiamo lasciare le persone sbagliare senza proteggerle dagli effetti dei loro errori, perché senza feedback reali non si impara.

Twitter @lforesti