Il reddito di cittadinanza tramonta in Finlandia, potrebbe funzionare in Italia?

scritto da il 04 Maggio 2018

Sembra che l’esperimento di reddito di cittadinanza finlandese non avrà un futuro oltre il periodo di prova stabilito. Secondo l’OCSE però potrebbe funzionare meglio in Paesi come il nostro, con sistemi di redistribuzione contorti e parzialmente regressivi. Rimangono forti dubbi sulla sua efficacia nel ridurre la povertà.    

Ma è lo stesso reddito di cittadinanza dei 5S?

No, quello finlandese è un esperimento di reddito di cittadinanza (anche chiamato reddito di base) nel senso proprio del termine, ovvero una somma forfettaria e incondizionata elargita alla platea di riferimento (in questo caso, in quanto esperimento, a un gruppo di disoccupati e non a tutti i cittadini). Quello pentastellato è invece assimilabile ad un reddito minimo, con una somma che varia a seconda del reddito di partenza e con delle condizioni allegate, fra cui la ricerca di lavoro.

Il tentativo nordico è coordinato da Kela, l’INPS finlandese, e consiste nel fornire 560 euro mensili a un gruppo di 2000 individui disoccupati fra i 25 e i 58 anni, scelti a caso, per due anni; il sussidio non si interrompe neppure nel caso in cui i beneficiari trovino lavoro. Inizialmente, si pensava di ampliarlo al termine di questo primo tentativo ad un gruppo di lavoratori per confrontarne gli effetti nelle due diverse condizioni, ma l’idea è appunto naufragata. Intanto, per quanto riguarda i risultati, dovrebbero cominciare ad arrivare nel 2019, quando i 2000 individui verranno studiati rispetto ai circa 173.000 del resto della popolazione target, che non ha ricevuto nulla (il cosiddetto gruppo di controllo). Uno degli aspetti principali che verranno studiati è la variazione nel tasso di occupazione fra il trattamento e il gruppo di controllo.

Gli argomenti teorici a sostegno del reddito di cittadinanza

Il reddito di cittadinanza sta ricevendo molta attenzione recentemente come possibile, semplice alternativa ai sistemi redistributivi oggi in essere, specialmente in vista di un progresso tecnologico che tende a ridimensionare la quota di reddito da lavoro in favore di quella da capitale, e a spostare i mercati del lavoro verso dinamiche più flessibili e discontinue.

Un reddito di base garantito a tutti potrebbe, questa l’argomentazione dei ricercatori del Kela (fra gli altri), fare da cuscinetto nei momenti di transizione e riportare sicurezza finanziaria ai meno abbienti. Potrebbe anche donare più libertà nei modi e nei tempi di lavoro, ridurre l’esclusione sociale lasciando la possibilità di affiancare al lavoro altre attività che favoriscano il reinserimento, e anche dare maggiore forza in fase di contrattazione quando si ottiene una proposta di lavoro. Tra l’altro, oltre ad essere chiaramente ben visto a sinistra come supporto agli ultimi, il reddito di cittadinanza non è nemmeno inviso a destra, perché elargito con poca intromissione statale e, possibilmente, rimpiazzando una serie ben più complessa di sussidi pubblici (lo stesso Milton Friedman nella sua serie di lezioni pubblicate nel 1962, Capitalism and Freedom, suggeriva l’utilizzo di qualcosa di simile: l’imposta negativa sul reddito).

Infine, una misura del genere costituisce un esperimento interessantissimo per gli economisti: la sua natura incondizionata non dovrebbe distorcere gli incentivi, perché il beneficiario non lo vede venir meno se trova o perde lavoro, o se il suo reddito sale sopra una determinata soglia.

Le conclusioni dell’OCSE

Il reddito di cittadinanza però costa molto. Così tanto che potrebbe portare un beneficio solo in quei sistemi che per la loro inefficienza generano di per sé costi ancora maggiori. O almeno è quanto si può dedurre dal rapporto OCSE Basic income as a policy option: Can it add up?, che presenta simulazioni di reddito di cittadinanza in alcuni Paesi, fra cui la Finlandia e l’Italia.

Chi vincerebbe e chi perderebbe dall’introduzione di un reddito di base, in % di individui appartenenti a nuclei familiari con almeno un individuo in età da lavoro. Fonte: OCSE.

Grafico 1: Chi vincerebbe e chi perderebbe dall’introduzione di un reddito di base, in % di individui appartenenti a nuclei familiari con almeno un individuo in età da lavoro. Fonte: OCSE.

La simulazione si basa sull’introduzione di un reddito di base che rimpiazzi la maggior parte dei trasferimenti sociali in età da lavoro e che sia tarato nella soglia sugli schemi di reddito minimo esistenti nei diversi Paesi. Per l’Italia, l’OCSE prende come riferimento il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia), precursore dell’odierno Reddito di inclusione (Rei), che si traduce nell’ammontare di 80 euro al mese per individuo. Sostituire con questo schema il sistema corrente di trasferimenti sociali in età da lavoro e detrazioni fiscali, comporterebbe per il nostro Paese risparmi stimati fino a 40 miliardi di euro l’anno (questo senza contare eventuali risparmi derivanti dalla semplificazione burocratica). Se questi risparmi venissero reinvestiti interamente nel reddito di cittadinanza (che i tal caso raggiungerebbe quota 158 euro al mese per individuo), otterremmo la situazione descritta nel Grafico 1, ovvero un guadagno per quasi l’80% degli individui in età da lavoro, il risultato migliore fra tutti i Paesi analizzati. D’altra parte, lo stesso report evidenzia come uno degli obiettivi principali del reddito di cittadinanza, ovvero diminuire la povertà, non verrebbe raggiunto: in Italia il tasso di povertà rimarrebbe invariato (un risultato comunque migliore che negli altri Paesi analizzati).

Una misura che semplifica ma non convince

L’esecutivo di Juha Sipilä ha deciso di non estendere l’esperimento di reddito di cittadinanza ancor prima di ricevere i risultati del tentativo in atto. Una mossa giustificabile, soprattutto alla luce del costo opportunità di un reddito di base: il problema principale della maggior parte dei governi è il vincolo di bilancio, ed elargire incondizionatamente risorse che potrebbero invece essere canalizzate solo dove e quando se ne presenta il bisogno è difficilmente sostenibile. Anche guardando all’Italia rimangono forti dubbi: se da una parte potrebbe semplificare e migliorare l’efficienza del nostro sistema redistributivo, dall’altra non sarebbe in grado di scalfire minimamente l’emergenza povertà. Una misura che, con i suoi 158 euro, probabilmente non avrebbe effetti avversi sull’offerta di lavoro, ma allo stesso tempo difficilmente potrebbe costituire un cuscinetto efficace nei momenti di difficoltà finanziaria.

Twitter @Tortugaecon