Restartup! Non lasciamo soli gli imprenditori italiani di fronte alla sfida della crescita

scritto da il 05 Maggio 2018

Periodo di bilanci, lunghe riunioni con i clienti in cui si tirano le somme sui risultati dell’anno passato e si definiscono i nuovi obiettivi. Riunioni che evidenziano sempre di più una polarizzazione tra chi cresce seguendo un progetto e chi arranca non riuscendo a definirlo.

Si è parlato molto di startup in questi anni, nel bene come nel male, con risultati non sempre soddisfacenti.

Oggi forse assistiamo ad un fenomeno diverso, altrettanto interessante ma di cui poco si dibatte sui media, che riguarda le imprese tradizionali: il restartup.

Sempre più spesso ci troviamo a supportare imprenditori che prendono consapevolezza delle cambiate condizioni di mercato e decidono di ripensare la propria impresa, ridisegnandone il modello di business.

L’operazione ovviamente è tutt’altro che semplice essendo soggetta a numerosi vincoli sia economici sia organizzativi sia umani (si opera su un treno che corre veloce non su un foglio bianco su cui disegnare un canvas). Le imprese sono ovviamente organizzazioni fatte di persone con le loro capacità, aspettative ed abitudini.

Tutto ciò detto soprattutto nelle regioni più sviluppate (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte) assistiamo a piccole e medie imprese che sono caratterizzate da ottime performance e coraggiosi progetti di sviluppo. A volte addirittura radicali.

Quali sono le caratteristiche di queste PMI dinamiche? Le abbiamo già evidenziate in un precedente contributo per Econopoly e non sembrano poi molto dissimili da quelle delle startup:

1 – Velocità di esecuzione per competere;

2 – Apertura a nuovi soci ed investitori;

3 – Curiosità a cui si accompagnano importanti competenze interne ed un forte bisogno formativo;

4 – La necessità di mettere in discussione il tradizionale business model;

5 – La partnership con università e centri di ricerca;

7 – Innovazione di prodotto o di processo (open innovation, Industry 4.0, ecc);

8 – La tensione verso una crescita dimensionale interna o esterna diventando attori attivi o passivi di M&A;

9 – La capacità di affrontare per tempo il passaggio generazionale;

10 – La forte tensione ad operare all’interno di una filiera di qualità (spesso internazionale).

Per provare a riordinare le idee ho chiesto aiuto al professor Marco Cantamessa, già presidente dell’incubatore I3P del Politecnico di Torino (ed attualmente membro del Consiglio Direttivo) e Past President di PNICube (l’associazione degli incubatori universitari italiani).

Dopo qualche prima riflessione sull’importanza di sviluppare e far maturare l’ecosistema startup Cantamessa ha subito voluto allargare il discorso all’intero sistema imprenditoriale italiano sottolineando il forte deficit di domanda di innovazione, che penalizza sia le startup che le PMI che intendono investire per innovare.

Un concetto troppo spesso sottovalutato (forse volutamente, visto la complessità dell’intervento politico ed associazionistico che, se condiviso, bisognerebbe mettere in atto) ma credo cruciale.

Bisogna lavorare – spiega Cantamessa – sulla crescita delle nuove imprese perché nonostante una legislazione di vantaggio, nel nostro Paese, ‘fare startup’ è ancora un’operazione ‘eroica’. In Italia, a una buona offerta di innovazione, si sposa una bassissima domanda. Finché imprese esistenti e pubbliche amministrazioni saranno recalcitranti ad adottare innovazioni, le startup non saranno apprezzate come fornitrici di beni e servizi e/o come target di acquisizione, e non potranno crescere in modo significativo. Ed è pertanto razionale che facciano fatica ad attirare finanziatori, i quali non fanno altro che anticipare le somme che prevedono di poter un giorno prelevare dalle tasche dei futuri clienti”.

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Se mentalità conservatrice e scarsa consapevolezza rappresentano un forte limite, appare altresì chiaro che non è sufficiente creare delle strade preferenziali a livello normativo per le startup. L’innovazione non può essere altro che figlia di un sistema aperto e competitivo che coinvolga anche le PMI tradizionali ed è su queste che, appare sempre più evidente, è necessario tornare a puntare.

“Con rammarico – ragiona il professore – devo ammettere che molte startup non hanno potuto pienamente esprimere il proprio potenziale di crescita. L’esperienza di questi anni trascorsi ‘in prima linea’ mi ha fatto maturare la convinzione che la causa di ciò sia legata alle vischiosità e agli attriti che frenano un po’ tutto lo sviluppo del nostro Paese. Viviamo purtroppo in un’Italia che è per larga parte culturalmente e mentalmente anziana, nostalgicamente legata al passato, orientata a rimanere precariamente ancorata alle posizioni raggiunte e alla ricchezza esistente, ma assai poco propensa ad alzare le vele per navigare alla ricerca di una prosperità futura“.

Le PMI e le startup, come ormai diciamo da tempo su Econopoly, per crescere devono iniziare a trovare un linguaggio comune, luoghi in cui confrontarsi e contaminarsi. Più difficile è definire le modalità concrete per sostenere ed incentivare questi processi di restartup delle imprese italiane.

Sviluppare una politica per l’innovazione e la crescita dimensionale anche per le PMI – è l’opinione di Cantamessa – comporterebbe enormi vantaggi di crescita per il Paese e di gettito per l’Erario. Un effetto moltiplicatore su PIL ed occupazione forse superiore rispetto a quanto oggi registrato per il mondo delle startup, e di cui questo stesso mondo si troverebbe a beneficiare.”

Particolarmente interessante a mio avviso potrebbe essere pensare ad una Academy per PMI sulla falsariga degli incubatori per Startup, per creare percorsi formativi e di confronto anche per imprese tradizionali (magari anche in vista di un corretto passaggio generazionale). Anche in questo caso Cantamessa ha saputo cogliere la sollecitazione e rilanciare ampliando l’orizzonte della discussione.

“Viviamo – spiega – in una società e un’economia della conoscenza nella quale, a causa del progresso tecnologico e della globalizzazione, gli standard richiesti a una società prospera e competitiva sono sempre più alti. In momenti turbolenti come quelli attuali sarebbe illusorio pensare a una crescita uniforme di tutte le PMI. Al contrario, bisogna dare l’opportunità alle imprese che hanno una visione strategica e il desiderio di realizzarla di esprimere il proprio potenziale interagendo con startup, università e centri di ricerca e con investitori. Poi, saranno queste medie imprese diventate grandi, o quelle piccole diventate medie, a trainare il resto del tessuto industriale.

“A questo proposito, uno dei grandi temi – continua Cantamessa – è la necessità di inserire figure manageriali nell’impresa familiare. Molto sovente, a frenare la crescita dimensionale dell’impresa è proprio una specie di tabù, in base al quale non solo proprietà e governance, ma addirittura la gestione operativa, debbano essere riservato a membri della famiglia imprenditoriale. Questo modo di ragionare è sovente deleterio, perché non solo rischia di portare a una selezione subottimale della dirigenza aziendale, ma anche di allontanare giovani laureati brillanti, che difficilmente vedrebbero prospettive di carriera in questo tipo di impresa. La necessaria ‘managerializzazione’ delle PMI non è facile, e richiede il superamento di alcuni ostacoli:
– Non esiste un mercato per manager di PMI, o se esiste è molto ridotto;
– Il cuneo fiscale e contributivo per i manager è particolarmente alto;
– Il manager con esperienza di grande impresa multinazionale non è sempre adatto alla PMI perché diverse e minori sono le leve operative, gli strumenti a disposizione, lo status personale;
– Il manager è poco incentivato ad operare in strutture dove i ruoli apicali sono riservati a membri della famiglia imprenditoriale o dove spesso la delega è solo formale”.

Per tutti questi motivi la crescita dimensionale appare come obiettivo necessario da perseguire. Crescita dimensionale che non significa dover diventare grande impresa ma rivedere e raggiungere quantomeno una dimensione minima adeguata per competere in un determinato mercato.

Non a caso in questi ultimi anni assistiamo (complice anche la possibilità di fare buoni acquisti con imprese solo da poco uscite da una lunghissima crisi) ad un mercato del M&A delle PMI (anche micro in alcuni casi) particolarmente vitale. M&A che ha consentito a molte imprese italiane di riuscire a competere nei mercati nazionali ed internazionali e specularmente a diversi imprenditori di uscire da un settore in difficoltà tutelando il proprio patrimonio personale.

Le operazioni che sempre più spesso ci troviamo ad osservare in Studio sono principalmente di due tipi:

– M&A capace di ridisegnare il business (open innovation, sinergie di scala, diversificazione ed internazionalizzazione);
– M&A seriale di piccole realtà per costruire un gruppo o un’unica impresa capace di competere e servire clienti più strutturati in filiere di qualità.

In entrambi i casi l’M&A volto al raggiungimento di una adeguata dimensione competitiva è percepito come una importante leva di creazione di valore.

Le PMI italiane meritano maggiore attenzione da parte degli organi di stampa, dell’Accademia, delle Associazioni imprenditoriali stesse e del mondo della consulenza che troppo spesso tende ad applicare in scala soluzioni in realtà adatte a grandi imprese.

Stiamo chiedendo un grande sforzo alle nostre imprese, pretendiamo (o meglio è il mercato a farlo) un cambiamento repentino, un salto di dimensione e competenze a cui solo le imprese inserite in filiere di valore sono in grado di far fronte.

Abbiamo bisogno di una politica economica fatta di incentivi alla capitalizzazione ma soprattutto di semplificazione normativa. Una politica economica capace di valorizzarne le qualità senza che si assista, come oggi avviene, ad una costante mortificazione delle potenzialità che potrebbero esprimere se lasciate libere di crescere ed operare.

“In un Paese – conclude Cantamessa – nel quale talento imprenditoriale e capitali privati certo non mancano, non serve uno Stato che prometta l’erogazione di denaro ma, semmai, una maggiore libertà di rischiare e di intraprendere, e di coglierne gli eventuali frutti”.

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