La diversità, le migrazioni e il ritorno economico per le aziende e per noi stessi

scritto da il 24 Giugno 2018

 

Premessa

Viviamo in un’epoca buia della nostra storia, nella quale si chiudono i porti ai migranti, si separano forzatamente i bambini dai propri genitori, si vogliono censire le diverse etnie, si discriminano le unioni che non siano eterosessuali. Probabilmente è necessario ripartire dalle basi, uscendo dalla propaganda politica che sta prendendo il sopravvento contro l’umanità stessa. Dobbiamo rivedere il concetto stesso di diversità, nelle aziende e nella vita di tutti i giorni, rischiando anche di ribadire l’ovvio, perché evidentemente così non è: in un mondo civile ed evoluto, l’articolo che segue non avrebbe senso.

I migranti per cercare un posto più sicuro che permetta a loro almeno di sopravvivere, devono affrontare dei viaggi pericolosi e pieni di insidie, rischiando la propria vita e quella dei loro figli; ma c’è anche un altro viaggio che deve essere intrapreso, questa volta da tutti noi e dentro di noi, per apprezzare il valore della diversità che, se vista da altre prospettive, ci arricchisce (e non solo umanamente). Vi descriverò un viaggio che affronterà tutte le diversità, non solo quelle del migrante, perché c’è sempre uno straniero dal quale crediamo di doverci difendere, anche se parla la nostra lingua e ha la pelle del nostro stesso colore. E infine lo farò da una prospettiva necessariamente aziendale, vicina al mio vissuto, parlando in termini di fatturato e margini, perché  purtroppo la filantropia non è mai stata un KPI presente in nessun tavolo dirigenziale, se non ai fini di brand identity, evidentemente poco efficaci.

Si parte, ma fate attenzione: questo viaggio non si misura in miglia, come nel caso dell’Aquarius, ma in gradi di consapevolezza.

 

Primo grado: chi sono i diversi

Quale tipologie di persone mancano nelle aziende, soprattutto tra i top manager, tanto da riconoscerne la mancata diversità? Insomma, permettetemi una forzatura dialettica: chi sono i diversi? Stiamo parlando delle donne, delle persone di altre etnie, di altre culture, di gender diversi. Scritta così, ci sembrano minoranze, ma proviamo a definire il concetto di diversità usando il suo complemento:

Per la maggior parte delle aziende sono diversi tutti coloro che non sono giovani uomini bianchi ed eterosessuali

Questo è il primo grado di consapevolezza in questo viaggio sulle diversità:  i cosiddetti diversi sono la stragrande maggioranza. A conti fatti, anche il termine diversità non è appropriato: probabilmente sarà stato coniato anch’esso dalla minoranza giovane, bianca ed eterosessuale.

 

Secondo grado: correlazione tra la diversità e il ritorno economico per le aziende che la attuano

Una importante ricerca della McKinsey intitolata “Diversity Matters” ci spiega, dati alla mano, come ci sia una stretta correlazione tra il grado di diversità introdotto nelle aziende e le loro relative performance finanziarie (EBIT).

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Da notare come non tutte le diversità fanno la differenza in tutti i paesi. Ad esempio, ci riporta sempre McKinsey, ad oggi negli Stati Uniti le diversità etniche sono quelle che portano più ritorni finanziari, rispetto a quelle di genere, avendo già fatto un buon lavoro sulla rappresentanza femminile nel top-management. Per converso, nel Regno Unito, ad oggi è molto più importante, sempre in termini finanziari, aumentare la cosiddetta “gender diversity”.

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Assodata quindi la stretta correlazione tra il grado di diversità (di genere ed etnica) presente in una azienda e le relative performance finanziarie, è opportuno chiedersi le ragioni che vi siano alla base.

 

Terzo grado: perché la diversità è importante

Le ragioni sono molteplici, difficile metterle in ordine di importanza. Sempre McKinsey ci ricorda le principali:

Focalizzandosi sulle donne e le minoranze etniche si allarga la pletora di possibili talenti candidati da poter assumere
Nel Regno Unito, ad esempio, le donne e le varie minoranze etniche sono i principali clienti di prodotti consumer, si stima più dell’80%!
La diversità aumenta la soddisfazione degli impiegati di una azienda, riducendo i conflitti tra i vari gruppi e migliorando la collaborazione
La diversità alimenta l’innovazione e la creatività, migliorando tutti i processi di problem solving, facendo emergere più velocemente le nuove idee

Quest’ultimo punto merita un ulteriore approfondimento. Quando il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, decise di chiudere le frontiere ai rifugiati (ci ricorda qualcosa?) e ai visitatori che provenivano da sette paesi islamici, una delle più antiche e prestigiose riviste di divulgazione scientifica, la “Scientific American”, decise di ri-pubblicare un interessante studio del 2014, dal titolo “How diversity makes us smarter“, che spiegava l’importanza della diversità nel mondo scientifico, offrendo un’interessante prospettiva sulla tematica, non così intuitiva. Partendo dall’assunto che è ovvia l’importanza di avere un team fatto di persone altamente specializzate nei diversi settori, al fine di risolvere problemi complessi, lo studio si è chiesto se anche la diversità (costituita da realtà sociali diverse) funzionasse allo stesso modo. La risposta che si è data è affermativa e la spiegazione è stata per me illuminante:

Siamo noi a migliorare grazie alla loro diversità

I limiti e le problematiche relative alla consapevolezza di essere diversi ci costringono a lavorare più duramente, a non dare nulla per scontato. Il dover superare questi limiti ci premia con delle performance migliori rispetto ai gruppi omogenei. In pratica chi è consapevole di avere a che fare con persone diverse, socialmente e culturalmente, cambia il proprio comportamento perché per poter raggiungere il consenso, sa che deve anticipare le relative differenze di opinione. Riportando fedelmente le parole dello studio, “la fatica che implica la diversità può essere pensata come alla fatica di un esercizio che ci fortifica”.

Ora siamo pronti ad affrontare il quarto grado di consapevolezza, dove vedremo come tutte le persone che non siano giovani bianchi eterosessuali riescano ad integrarsi nel proprio tessuto sociale e produttivo.

 

Quarto grado: lo stato delle diversità per categoria

Quando si parla di persone, categorizzare è una pratica deleteria e pericolosa, si rischia di entrare in un terreno viscido e paludoso dal quale è difficile uscirne indenni. Ma per superare il quarto grado di consapevolezza, è necessaria un’attenta disamina di tutte le realtà che ad oggi sono fuori, o quanto meno ai margini, del mondo lavorativo (e non solo). Questo perché, è bene ribadirlo, quando si parla di esclusioni, non ci sono solo i migranti. Lo straniero diventa un concetto astratto che include, non solo tutte le persone non bianche, ma anche tutte le donne, i gay, i trans, le lesbiche, e tutti coloro che hanno superato i 45 anni di età (bianchi e non).

Gli immigrati

“Cosa hanno in comune Arianna Huffington (Huffington Post), Dietrich Mateschitz (Red Bull), Elon Musk (Tesla, SpaceX), and Sergey Brin (Google)?”, ci chiedono i due autori di un articolo della Harvard Business Review intitolato “Why Are Immigrants More Entrepreneurial?“. La risposta è semplice: sono tutti immigrati. Negli Stati Uniti sono il 13% della popolazione, ma rappresentano il 27,5% degli imprenditori. Ben un quarto di tutte le aziende hi-tech, nate dal 2006 al 2012 contano almeno un immigrato come fondatore. La domanda viene spontanea: come mai? Ci fornisce una risposta un altro recente studio quando ci spiega che esperienze cross-culturali aumentano considerevolmente le capacità di identificare nuovo business. Vivendo e conoscendo diverse culture, gli immigrati riescono a condividere i nuovi prodotti, servizi, preferenze dei consumatori, permettendo a loro di anticipare i tempi. Si pensi ad esempio alle origini di Starbucks, nata da un’idea dell’ex CEO Howard Schultz, dopo aver conosciuto e apprezzato i nostri bar italiani. Le esperienze cross-culturali stimolano anche la creatività: interagendo in diversi contesti culturali, gli immigrati combinano le diverse idee, creando soluzioni nuove ed inedite. Volete un esempio per tutti? Quando Dietrich Mateschitz fece un viaggio in Thailandia, nel 1980, ebbe modo di apprezzare una bevanda chiamata Krating Daeng, molto popolare tra i camionisti locali. Tornato in patria ha adattato quella bevanda cambiando leggermente il gusto, la taglia e il brand per poi venderla con il nome, a noi noto, di Red Bull Energy Drink indirizzandola in un mercato nuovo come quello delle discoteche alternative. Lo studio della HBR si conclude con una esortazione che sento di poter condividere: “Evidentemente conviene spendere i soldi pubblici per creare incubatori per gli immigrati imprenditori, piuttosto che costruire i muri dei confini

Le donne

Due anni fa scrissi un articolo su LinkedIn, dal titolo tanto autoesplicativo quanto provocatorio: “Tre ragioni per assumere donne, possibilmente (neo) mamme per ruoli manageriali“, citando una imponente ricerca scientifica, pubblicata sul prestigioso “Science”. I ricercatori hanno notato che le prestazioni dei gruppi più affiatati non erano correlate solo alle abilità individuali (rilevate chiedendo a molti partecipanti di svolgere compiti analoghi individualmente), ma si manifestavano in una sorta di intelligenza collettiva in grado di migliorare la prestazione del gruppo anche del 30 o 40%.

La ricerca ha poi spiegato meglio cosa intendesse con “gruppi più affiatati”, evidenziando come questo fattore di intelligenza collettiva fosse correlato alla sensibilità sociale dei singoli membri del gruppo, cioè alla capacità di percepire ciascuno le emozioni degli altri (leggi: empatia). Aggregando poi i dati in loro possesso hanno scoperto, per serendipity, che i gruppi più affiatati avevano una maggiore presenza femminile. La capacità di saper esprimere le proprie emozioni, e quindi di saperle riconoscere negli altri, è notoriamente più frequente nelle donne, e la ricerca se lo spiega con la necessità “by nature and nurture” di saper interpretare le emozioni del proprio figlio. Da qui la mia logica deduzione ed esortazione ad assumere neo mamme per ruoli manageriali. Se questo non dovesse bastare, visto che in molti casi non basta neanche il buon senso, vi riporto un altro interessante studio, curioso sia per le conclusioni a cui arriva, assolutamente contro-intuitive rispetto agli stereotipi, sia per la metodica usata. Lo studio afferma che nei momenti che contano, ovvero quando vi è la maggiore pressione, le donne rispondono molto meglio degli uomini, in barba al luogo comune che vede le donne più emotivamente instabili degli uomini. Come lo dimostra? Analizzando le performance delle sole battute del solo primo set di più 8.200 partite del Gran Slam Tennis, maschili e femminili. Nei momenti critici, ad esempio quando si è ad un 5-5, le donne sbagliano meno battute degli uomini di almeno un 50%.

Nonostante questi studi (ed altri che vi risparmio), nonostante -mi ripeto- il buon senso, vediamo cosa accade quando le aziende devono assumere top manager:

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Se in un pool di 4 candidati vi è una sola donna, questa non ha nessuna probabilità che venga assunta, rispetto al 33% di chance che ha l’uomo nella situazione analoga. Lo studio che ha riportato questi risultati è lungo ed articolato e vi consiglio di leggerlo, perché affronta la tematica della diversità a tutto tondo. E’ lo stesso studio che con una battuta riassume in breve l’iniquità tra le donne e gli uomini quando si parla di lavoro:

ci sono più CEO che si chiamano David che CEO donne (e David non è neanche il nome più comune negli US)

Questo per quanto riguarda le pari opportunità nel processo di selezione del personale, ma le cose non migliorano quando si parla di parità di salario tra i due generi. A tal proposito, uno studio del 2016 smaschera un altro luogo comune: è la disparità di salario che fa allontanare le donne trentenni dalla propria azienda, non la presunta necessità di avere più tempo per seguire la propria famiglia.

Il variegato mondo LGBT

Se gli immigrati e le donne faticano ad affermarsi nel mondo del lavoro, non se la passano bene neanche le lesbiche, i gay, i bisessuali e i transgender, visto che subiscono discriminazione e minacce anche fuori dal posto di lavoro. Il mondo infatti è un posto molto pericoloso per loro:

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(Fonte: Center for Talent Innovation)

Per chi fosse interessato vi è un report di 76 pagine, del Center for Talent Innovation, che spiega i notevoli benefici che avrebbe una azienda nell’assumere persone LGBT. Li riassume in tre principali pillar che vado qui di seguito a descrivere:

1 Le aziende LGBT-friendly attraggono e riescono a tenersi i migliori talenti. Ben il 72% di coloro che sono vicini alle istanze LGBT, pur non essendolo, preferiscono di gran lunga lavorare in questo tipo di aziende, perché respirano un’aria di inclusività, che permette a loro di essere più performanti e di dare il meglio. In altre parole la gentilezza e il rispetto sono contagiosi e rendono l’ambiente di lavoro un posto piacevole dove vivere, non solo dove lavorare.
2 Non solo le persone LGBT ma anche tutti i loro supporters preferiscono comprare da aziende vicine alle loro istanze. Non facciamo l’errore, magari basandoci sui nostri pregiudizi, che sia un mercato minimale. Si calcola un potere d’acquisto delle persone LGBT di ben 3,7 mila miliardi di dollari (senza contare quello dei loro supporters).
3 Visto il loro potere d’acquisto, chi meglio di loro, conosce il mercato a loro dedicato? Per questo portarsi dentro persone LGBT migliora l’innovazione e il relativo marketing.

Quinto grado: cosa fare per essere più inclusivi

Siamo all’ultimo grado di consapevolezza, alla fine di questo nostro viaggio: una volta capita l’importanza della diversità e di come possa fare la differenza anche e soprattutto in termini di business, è necessario chiedersi cosa si è fatto e cosa si può fare per mettere in atto le relative politiche di inclusione. Non c’è nessuna grande azienda internazionale che non dichiari aver attuato programmi dedicati alla diversità, ormai se ne parla da almeno 40 anni. La domanda sorge spontanea: sono efficaci? funzionano? Uno studio, vincitore di importanti premi, ci spiega come mai i programmi sulla diversità falliscono tutti miseramente: puntano tutti sul redarguire il management, dicendo loro cosa devono e non devono fare, spiegando loro come comportarsi nei classici scenari. Insomma, da tutti viene vissuto come un dovere (magari per non perdere il bonus), una imposizione. Questo approccio evidentemente non funziona. Lo stesso studio invece consiglia di lavorare sull’engagement, su base volontaria, facendo sentire il management parte attiva del processo di cambiamento. Detto questo, a mio modesto avviso, bisogna lavorare su due fronti paralleli:

Culturale. Molto probabilmente prima di chiederlo alle aziende cosa fare, dobbiamo provare a cambiare noi stessi. Io lavoro per una azienda hi-tech dell’IT e fatico a trovare ingegneri del software donne, visto che sono in poche a laurearsi in queste discipline. Eppure, ci ricorda Tatiana Rizzante, CEO di Reply (la società per la quale lavoro), “il contesto delle tecnologie è nella sua essenza egalitario perché alla fine quello che fa la differenza è il know how“. È necessario ricordare che è stata una donna a sviluppare il software che ha permesso all’Apollo 11 di atterrare sulla luna? Pertanto per dirla con una battuta: più meccano alle bambine e meno Barbie, altrimenti non se ne esce.
Di processo. In molte aziende nord americane, quando si parla di assunzione soprattutto per il top management, vige la Regola di Rooney: presa in prestito da una pratica adottata dalla NFL (National Football League), obbliga l’azienda a mettere almeno una persona, della cosiddetta minoranza, nel pool definitivo dei candidati da assumere. Funziona, quanto meno negli Stati Uniti. Trovo interessante il fatto che sia una sorta di italica quota rosa, fermandosi però ad un livello prima, quello dei candidati da proporre. Potrebbe essere questa una via da sperimentare anche nel resto del mondo.

Conclusioni

Il viaggio dello straniero (nel senso più metaforico del termine) verso le nostre terre è un viaggio a metà, l’altra metà dobbiamo percorrerla noi. Dobbiamo superare i pregiudizi e gli stereotipi, avere una visione del mondo più aperta, tollerante, curiosa, che non abbia paura del diverso, perché a conti fatti, tanto diverso non è. Ma l’unico messaggio che spero sia passato, alla fine di questo lungo viaggio sulla diversità, è che dobbiamo farlo prima di tutto per noi.

Non si tratta di essere buonisti, ma di capire che, in questi casi, dietro ad ogni problema, che nessuno vuole nascondere, c’è una sfida che può essere affrontata con un minimo di coraggio, per trasformarlo in una meravigliosa opportunità, per il benessere di tutti. Avrete notato che tutta la letteratura riportata a supporto delle tesi qui espresse, nasce e si sviluppa in altri paesi lontani dall’Italia. Nel nostro paese abbiamo ancora tanta strada da fare, e certamente la propaganda politica che specula sulle paure delle persone, inventandosi comodi nemici, non ci permette di prendere le giuste decisioni con la necessaria serenità.

— Emiliano Pecis su Linkedin