Uscire dall’euro servirebbe ancora? Ecco cosa ci dice la competitività di prezzo

scritto da il 29 Giugno 2018

Esiste una narrativa fondamentale intorno alla quale si sono costruite la maggior parte delle critiche alla permanenza dell’Italia nell’euro. Questa narrativa si riferisce al fatto che l’introduzione dell’euro, impedendo alla nostra economia di svalutare la lira, e/o di rivalutare il marco tedesco, ha determinato squilibri nei conti esteri dell’Italia e degli altri Paesi aderenti all’euro. Squilibri commerciali che poi sono stati alla base della crisi dell’eurozona del 2010/2012. Superare la moneta unica, reintroducendo le valute nazionali, favorirebbe l’azione riequilibratrice dei mercati e quindi la ricomposizione degli squilibri che fino ad oggi si sono accumulati.

Lasciando da parte per un momento tutte le problematiche relative alla gestione della transizione dall’euro alle valute nazionali e dimenticando tutta quella parte di letteratura emersa negli ultimi anni che evidenzia la difficolta del mercato dei cambi di correggere gli squilibri commerciali, può essere interessante andare a vedere quali squilibri ancora rimangono, per verificare quanto la narrativa sia ancora supportata dai dati. Focalizziamoci sulla nostra economia e vediamo quanto manca per ritornare ad avere la competitività di prezzo che avevamo “riacquistato” con lo sganciamento dallo Sme, e che abbiamo mantenuto grazie al cambio flessibile negli anni dei surplus commerciali record, quelli intercorsi tra il 1993 e il 1997.

Un grande classico: Italia vs Germania
Partiamo dallo squilibrio “principe”, quello che molti identificano nella gara tra la nostra economia e quella tedesca. Dal 1998, come molti sanno, il cambio tra la lira ed il marco tedesco è stato fissato in modo irrevocabile, ed è poi stato eliminato con l’introduzione della moneta unica. Questo però non significa che la competitività dei due sistemi sia rimasta la stessa. Il fatto che le valute non si possano più muovere reciprocamente non vuol dire che i prezzi dei prodotti venduti nei due Paesi debbano variare allo stesso modo. In ciò consiste la differenza tra cambio nominale (espresso dal rapporto tra le valute nazionali) e cambio reale (espresso dal rapporto tra i prezzi reciproci). Il cambio nominale può rimanere costante mentre quello reale, il prezzo di un paniere di beni denominato in valuta comune, può variare.

Se i prezzi sono aumentati molto più in Italia che in Germania, allora, non essendoci la presunta funzione riequilibratrice del cambio nominale tra le due economie, il tasso di cambio reale dell’Italia nei confronti della Germania si sarà apprezzato, espressione del peggioramento della competitività di prezzo del sistema italiano. Assumendo così che il prezzo sia l’unica variabile su cui si determina la decisione di acquistare o meno un bene (assunzione per la verità un po’ tirata, ma continuiamo con semplicità!), i beni prodotti in Germania saranno più convenienti di quelli italiani, e se ne venderanno molti di più, dando luogo a squilibri commerciali tra i due Paesi.

Andando ad osservare i dati dei prezzi (espressi in termini di inflazione armonizzata) cumulati dal 1997 di Italia e Germania si può avere una stima abbastanza affidabile di quanto sia lo squilibrio, in termini di competitività, tra i due Paesi, così come descritto in figura 1.

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Figura 1. Variazione del tasso di cambio reale bilaterale tra Italia e Germania dal 1998 al 2018. Elaborazione basata sull’inflazione armonizzata media semestrale rilevata a partire dal gennaio 1998. Fonte dati Eurostat.

Come la narrativa no-euro prevalente vuole, l’Italia ha visto apprezzare il proprio tasso di cambio reale nei confronti della Germania dal 1997 al 2012 (singolare come gran parte di questo apprezzamento del cambio reale avvenga prima del 2003, prima delle famigerate riforme Hartz). Ma poi, dal 2012, il tasso di cambio reale si è piano piano deprezzato. Rimane ancora poco più dell’8% di differenza tra le due economie rispetto al 1997, non granché ormai.

In un mondo in cui esistono solo Italia e Germania, in cui la partita della competitività di prezzo si gioca solo tra queste due economie, potremmo chiuderla qua. Però il mondo è un po’ più esteso e la Germania, anche se è un nostro partner commerciale importante, rappresenta solo il 14% del nostro interscambio commerciale. Esistono Paesi, anche all’interno dell’area euro, che hanno avuto un’inflazione cumulata più alta di quella italiana (come ad esempio Spagna, Portogallo e Grecia) e altri Paesi verso i quali il deprezzamento del cambio nominale dell’euro ha modificato sensibilmente la competitività di prezzo della nostra economia. Conviene pertanto estendere il ragionamento che abbiamo fatto anche all’altro 86% dell’interscambio commerciale.

La competitività dell’Italia nel mondo
L’indice che misura in modo sintetico la competitività di prezzo di un certo Paese verso il resto del mondo è chiamato tasso di cambio effettivo reale (in inglese REER – real effective exchange rate). Esso è dato dalla media ponderata dei tassi di cambio reale singolarmente calcolati verso ogni altra economia del mondo. Nell’indice saranno pertanto ricompresi Paesi verso i quali abbiamo rapporti di cambio fissi e rapporti di cambio variabili (verso cui sono destinate ormai di più del 60% delle nostre esportazioni), Paesi che tradizionalmente fanno più inflazione della nostra economia e Paesi che ne fanno di meno. Osservando come si è evoluto nel tempo il REER si ha indicazione di come i nostri prodotti sono competitivi (dal solo punto di vista del solo prezzo) nel resto del mondo.

Vari istituti pubblicano periodicamente questo indice di competitività – Eurostat, Banca dei regolamenti Internazionali e Fondo Monetario Internazionale, solo per citarne alcuni – e quello che si può ricavare dagli ultimi dati pubblicati è che la perdita di competitività di prezzo rispetto agli anni della “lira fluttuante”, se mai ci fosse realmente stata, è ormai del tutto trascurabile. Rispetto alla media registrata tra il 1993 ed il 1997, l’Italia ha ridotto la propria competitività di prezzo di un valore compreso tra il 2 ed il 6%. Qualcosa che, tenuto conto delle metodologie utilizzate e di tutti gli altri fattori che incidono sulla competitività internazionale dei prodotti (tipologia del bene, catene del valore, canali di distribuzione e strategie di marketing solo per citarne alcune) è veramente del tutto trascurabile.

Se anche avessimo mantenuto la nostra valuta, ipotizzando che quelli tra il 1993 ed il 1997 fossero stati gli anni in cui la lira avesse raggiunto il suo “giusto” valore, essa avrebbe adesso un valore rispetto all’euro non molto differente da quello fissato nel 1997.

La narrativa relativa al tasso di cambio nominale ed alla competitività data dalla lira è sicuramente abbastanza semplice da comprendere ed affascinante, ma in realtà, come ho avuto modo di spiegare altre volte, non ha più molto senso. L’Italia esporta ormai più del 60% fuori dalla zona euro e le sue strutture produttive, le catene di fornitura, sono cambiate radicalmente nel percorso di adattamento alla globalizzazione.

Rimangono certamente dei difetti di costruzione della moneta unica, ma essi, almeno per quanto riguarda lo specifico caso italiano, hanno molto più a che vedere con la gestione dei flussi finanziari che non con quella degli scambi commerciali. Problematiche che esistevano già prima dell’introduzione dell’euro, che sono riapparse con la crisi dell’euro iniziata nel 2010, e che purtroppo non potranno esser risolte con il ritorno alle valute nazionali.

Twitter @francelenzi