Migranti o criminali? Per molti partire è una scelta: guardare oltre il confine

scritto da il 15 Luglio 2018

L’autrice di questo post è Kateryna Fedorova, advisor presso uno studio legale milanese e cultrice della materia informatica giuridica presso l’Università degli Studi di Milano –

L’immigrazione è uno dei temi più “caldi” degli ultimi tempi. Definita come “l’ingresso e l’insediamento temporaneo o definitivo in un paese o regione di persone provenienti da altri paesi o regioni”, oggi, rappresenta, se non un problema, un fenomeno col il quale più o meno tutti i paesi devono confrontarsi.

Ogni volta che leggiamo sui giornali di nuovi sbarchi nei porti italiani, ci chiediamo se le persone appena arrivate hanno l’intenzione di beneficiare dell’accoglienza italiana per sempre o se andranno via dopo un breve tempo, recandoci il minor disturbo possibile. Sempre più spesso vediamo per strada volti di persone di colore di pelle diverso dal nostro e temiamo di diventare minoranza etnica in casa nostra.

Un tema strettamente collegato all’immigrazione – soprattutto quella proveniente dai paesi meno sviluppati e più poveri rispetto all’Italia – è quello della criminalità. Secondo il rapporto dell’Osservatorio Europeo sulla sicurezza “l’esistenza di una relazione tra immigrazione e incremento della criminalità è convinzione diffusa presso l’opinione pubblica italiana”. Il fatto che gli immigrati – perlopiù uomini di giovane età, cioè appartenenti a quella fascia di popolazione con il tasso di delittuosità più elevato – si trovino in condizioni economiche disagiate, inevitabilmente favorisce la condotta delittuosa.

Ma sarebbe assai frettoloso arrivare alla conclusione per cui qualsiasi tipo di immigrazione porta inevitabilmente all’aumento del livello di criminalità. In effetti, mentre l’immigrazione verso gli Stati Uniti, in particolar modo quella proveniente dalla Sicilia, alla fine dell’Ottocento ha contribuito all’infiltrazione della criminalità mafiosa, alcun incremento del livello della criminalità si è verificato nel caso della immigrazione intraeuropea subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.

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Parlando dei giorni nostri, secondo numerosi studi di criminologia (qui cito una fonte cartacea – il Compendio di Criminologia, Gianluigi Ponti, Isabella Merzagora Betsos, Raffaello Cortina Editore), i crimini che vengono commessi da parte degli stranieri appartengono alla cosiddetta criminalità povera, rappresentata perlopiù da reati di scarsa rilevanza sociale e di modesto valore economico, contrapposta alla “grande” criminalità organizzata. In effetti, per commettere i reati di criminalità organizzata, occorre disporre di una certa… organizzazione, appunto, nel paese di approdo. Tali reati, dunque, se vengono commessi da stranieri, non possono prescindere dal coinvolgimento delle persone del posto (e quindi, di nazionalità italiana).

Come viene evidenziato dagli studi di criminologia (si veda il precedente riferimento), il fenomeno della delinquenza da parte degli immigrati è spesso dovuto a motivi sociali, in particolare agli ostacoli che gli immigrati incontrano nei paesi ospitanti, alla costante esposizione dei medesimi a discriminazioni o ai pregiudizi razzisti, e non al fattore etnico degli immigrati.

Uno dei motivi più ovvi per cui l’Italia attira i flussi migratori è la sua posizione geografica che fa sì che il paese sia la prima frontiera sulla strada per raggiungere il resto dell’Europa. Ma non sempre l’Italia è stata il paese di arrivo, in numerose occasioni è stata anche il paese di partenza: l’immigrazione dalla Sicilia verso la Francia negli anni 30 a causa della chiusura delle miniere e quindi dell’impossibilità di trovare lavoro, le partenze dal Trentino verso il Brasile alla fine dell’Ottocento a causa della crisi delle aziende agricole, ecc. Ed anche negli ultimi decenni il flusso degli italiani verso l’estero è significativo. Secondo i dati ISTAT pubblicati alla fine dell’anno scorso, le emigrazioni (cancellazioni dall’anagrafe per l’estero) per l’anno 2016 sono in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. Le principali mete di destinazione per gli emigrati di cittadinanza italiana sono il Regno Unito (21,6%), la Germania (16,5%), la Svizzera (9,9%) e la Francia (9,5%) (si veda il link precedente).

Considerando che la fuga degli italiani all’estero era, ed è, dettata dalla crisi economica e quindi dall’impossibilità/difficoltà di trovare lavoro nel proprio paese, condivido pienamente l’opinione di Stefano Vaj, un mio collega nonché caro amico, che in un suo articolo ha scritto che la partenza degli italiani rappresenta “una vergogna nazionale, una ferita non rimarginata che ha consegnato non solo generazioni di italiani allo sfruttamento in terra straniera e ad un’alienazione malamente compensata da un folclore talora grottesco, ma intere regioni del nostro paese al sottosviluppo, all’assistenzialismo ed alla corruzione endemica”.

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Esistono, tuttavia, due tipi di immigrati: quelli che sono forzati a trasferirsi (perché scappano dalla guerra o dal degrado/povertà nel proprio paese o cercano condizioni di vita migliori) e quelli che vogliono trasferirsi perché è la loro scelta. Io penso e spero che non tutti quelli che vanno via lo facciano perché sono costretti a farlo, ci dovrà pur essere qualcuno che parte perché vuole fare esperienze diverse, perché si è innamorato(/a) di un(a) cittadino(/a) di un paese straniero e parte per raggiungere lui o lei, per aprire i confini della propria mente, per guardare oltre.

Io stessa sono una immigrante. Ed è forse proprio per questo motivo che ho deciso di scrivere sul tema dell’immigrazione. Voglio dire, chi potrebbe trattare meglio l’argomento in questione di un immigrante? Mi sono trasferita nel paese dove abito adesso, qui mi sono laureata e ho trovato lavoro, qui pago le tasse, qui vivo, insomma. La decisione di trasferirsi è stata mia, non scappavo da nessuna guerra o processo politico. Non era nemmeno tanto una questione puramente economica, anche se sapevo che il livello di stipendi è decisamente più alto rispetto a quello del paese dove abitavo prima. Ma anche se il mio paese fosse stato più forte dal punto di vista economico, più sviluppato industrialmente, mi sarei trasferita lo stesso proprio perché i miei motivi erano soprattutto culturali: poter parlare costantemente una lingua straniera, vivere nel paese dove si respira arte, moda, cultura, cucina, e che per me rappresenta un museo a cielo aperto.

È esattamente questa l’immigrazione che sostengo (ovviamente, escludendo l’ipotesi borderline di fuga da guerra/violenza): quella basata sulle proprie scelte, sul desiderio di mettersi alla prova, realizzarsi in un paese straniero, non temere le difficoltà, uscire dalla propria zona di comfort. E forse proprio questa è una ragione da non sottovalutare e che potrebbe spingere molte persone che hanno scelto di abbandonare la propria terra: non fuggono dal proprio paese di origine perché non sono in grado di trovare un lavoro (che in molti paesi c’è, basta cercare), ma partono perché non sono in grado di vivere senza ciò che si trova oltre il confine.