Stato mamma o azienda per il welfare dell’Italia che pretende?

scritto da il 24 Luglio 2018

Potremmo essere di fronte ad un gruppo di persone che ha il potere (declinato in tutte le sue forme…) di giudicare e stabilire quali sono le scelte di vita degne di rispetto e quelle che invece sono espressioni di stupidità. Ecco, quindi, che oggi essere acculturati potrebbe equivalere, per questo potere, ad aver solo perso tempo, a qualcosa di inutile.

                                                                                     Alessandro Bertirotti

Stato sociale, assistenza, protezione, chiusura, rifiuto: sembrano le keywords di un popolo che vuole rinunciare alla competitività del paese in cui vive, segregarsi dal mondo e andare incontro temerario a qualsiasi pericolo d’instabilità economico-finanziaria. Rebus sic stantibus, abbiamo interpellato un antropologo della mente, il professor Alessandro Bertirotti, docente di Psicologia del Design all’Università di Genova e Visiting Professor all’Universidad Externado di Bogotà. Perché chiedere proprio a lui, anziché a un economista? La risposta è tanto semplice quanto inquietante: prima di tirare fuori dei numeri, bisogna indagare sulla condizione umana, sui motivi che spingono oggi gli italiani a condannare quasi in modo acritico l’intero establishment. Il nostro cervello – dice Bertirotti – è dotato di un sistema che mette in relazione la fatica con la gratificazione. Siccome ogni rinuncia non porta di certo a una gratificazione immediata, l’assenza di scopi perseguibili coi propri meriti ha, in qualche modo, ridotto l’attività del sistema mesolimbico dopaminergico.

Qui s’insinua l’equivoco, che è gigantesco, preoccupante, grossolano e, purtroppo, incoercibile: la gente, purtroppo, viene indotta a credere all’idea secondo la quale lo Stato avrebbe un ruolo familistico, non altrimenti che se fosse la risposta tutoriale ai nostri bisogni e ai nostri desideri. Non ci si rende conto che un sistema siffatto, già sul nascere, è debole, giacché non alimenta alcuno scambio autentico tra cittadino e territorio. Se è vero, infatti, che l’anima di una nazione è il cittadino, è altrettanto vero che la nazione non è un’entità statica e priva di vita; non si può prelevare da essa energia, senza pensare al possibile esaurimento della fonte. Gli italiani pretendono spesa sociale e tale pretesa è manifestata in modo acritico e con una certa violenza. ‘Welfare a tutti i costi!’ sembra essere la prima formulazione linguistica che leghi il popolo ai governanti. I costi, però, costituiscono il primo serio problema o, in altre parole, la conseguenza dell’equivoco originario, ad onta della simmetria ‘erotica’ che s’è appena materializzata tra le dichiarazioni di taluni ministri e le richieste degli elettori.

Nello stesso tempo, dato che ogni equivoco socio-economico non è mai un fenomeno isolato, ma appartiene al ricco sistema della dispercezione, si mostra ostilità a quei paesi come Stati Uniti e Inghilterra, per esempio, i quali possono permettersi di fare il bello e il cattivo tempo sui mercati. I più attenti non faranno fatica a ricostruire il recente gioco trumpiano sul prezzo del barile e l’astuzia britannica in materia di Brexit.

Ebbene, cosa dire a tal proposito? La miseria culturale di questo presente storico-politico, tra le altre cose, fa ignorare ai più che i primi interventi in materia di Welfare State maturarono proprio negli USA e in Gran Bretagna, rispettivamente, nel 1932, col New Deal di Franklin Delano Roosevelt, e nel 1948, durante il governo laburista di Clement Attlee. Mentre richiamiamo alla mente qualcosa il cui valore, in genere, non viene opportunamente stimato, abbiamo il dovere di rinfrescarci la memoria sull’importanza del contesto in cui certe manovre furono realizzate: negli Stati Uniti, la Grande Depressione del 1929, a causa della quale la disoccupazione giunse quasi al 30%, si perdette il 44% del PIL, le banche fallirono a migliaia et cetera; nel Regno Unito, invece, l’immediato dopoguerra, che di certo non ha bisogno di altre spiegazioni in fatto di disagi. Gli Stati dovevano ricostruirsi e così pure, per certi aspetti, le identità nazionali. Non è un caso che intorno ai primi anni Ottanta le cose siano cambiate in modo radicale: Margaret Thatcher e Ronald Reagan furono protagonisti indiscussi della trasformazione ‘liberale’ dell’economia, consolidando il trionfo, da una parte, dell’imperialismo finanziario, dall’altra, della grande impresa. I modi possono essere discutibili; i fatti e i numeri no.

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A questo punto, noi non possiamo continuare a piangerci addosso e a parlar male dell’altro perché è più avanti rispetto a noi. Vogliamo essere ‘protetti e coccolati’ dallo Stato e tornare a quegli anni ‘luminosi’? Bene! Rielaborando Robert Emerson Lucas Jr, premio Nobel per l’economia nel 1995, cominciamo a pensare che la gente si sia persuasa di potere avere una spesa sociale superiore alle tasse che bisogna pagare per averla. Il piano delle riforme economico-sociali della coppia Di Maio-Salvini, tra quota 100, reddito di cittadinanza, flat tax et alia potrebbe costare circa 130 miliardi. Qualcuno insiste nel dire che il ritorno alla sovranità monetaria sarebbe una panacea perché lo stato potrebbe stampare tanta moneta quanta ne sarebbe necessaria a stimolare l’aumento dei prezzi e la relativa (?) e conseguente (?) occupazione. Costui dimentica tuttavia che l’abuso delle politiche espansive non fa affatto bene all’economia reale, che rischia di essere risucchiata dalla stagflazione e soffocata da un eccessivo aumento dei prezzi. Far crescere l’inflazione è sicuramente uno stimolo, ma non avere alternative è pericoloso. A proposito del pericolo che si corre in talune circostanze,

Alessandro Bertirotti dichiara: – Ammesso e non concesso che nella nostra nazione si sia mai sviluppata un’idea popolare e condivisa di Stato, cosa di cui dubito fortemente, vista la storia del nostro Paese, la percezione dei pericoli non è tale perché la percezione di ‘pericoloso’ ancora non si è vissuta davvero. Mi riferisco al fatto che il livello di benessere è ancora abbastanza diffuso e l’aumento della quota di povertà, compresi i nuovi poveri, ancora non influisce in modo determinante sullo stile di vita che possiamo ancora definire agiata di tutti noi. I poveri continuano ad essere sempre gli altri, e quasi tutti si salvano da questo pericolo.

Non si pretende più che i detrattori dell’euro e dei mercati abbiano letto le opere di Milton Friedman, questi sono i tempi dell’anti-cultura, figuriamoci in quale sventura s’imbatterebbe quell’uomo che ricorresse, per esempio, ai grafici a torta per spiegare la composizione delle uscite! Sarebbe auspicabile tuttavia che qualcuno cominciasse a farsi carico della distanza che s’è creata tra Stato, da intendere come apparato, e società civile.

Se leggiamo l’ultimo DEF, non facciamo fatica ad apprendere che vengono erogate pensioni per 270 miliardi, laddove i contributi sono pari a 232 miliardi; la qual cosa si traduce in una differenza negativa di 38 miliardi e si impone alla nostra attenzione in un momento in cui la spesa sociale si aggira intorno a 350 miliardi a fronte di un introito di circa 235 miliardi. E dev’essere chiaro che la fonte è il MEF, non un qualsivoglia clownesco comitato dei sondaggi per la propaganda di partito. Allo stesso modo, i dati sulla denatalità e l’invecchiamento della popolazione sono incontrovertibili, per quanto si tenti di raccontare che qualche manaccia alteri i documenti finanziari del governo. Qui, la partita non si gioca più tra ‘amici e nemici della Fornero’, se si è intelligenti e ragionevoli: è inevitabile che un suo ripensamento-alleggerimento deve essere sostenuto da risorse che attualmente non esistono. Vien fatto di chiedersi: se lo spread è un maleficio dei poteri forti, se dei titoli di Stato si può fare a meno e se il prelievo tributario dev’essere ridotto e così pure la ripartizione contributiva pensionistica, in che modo dovrebbe restare in piedi l’Italia?

Vogliamo precisare che, in questo scritto, siamo ben lungi dall’assumere posizioni politiche a favore degli uni o degli altri. Restiamo altresì perplessi sulla natura di questo Welfare State da film western e vorremmo delle spiegazioni dirette e trasparenti, dal momento che, molto probabilmente, non riusciamo a capire come venirne a capo e chiunque si arroga il diritto di dirci che siamo ignoranti.

In questi giorni, tra le altre cose, qualche segnale di pericolo sta giungendo anche dalle scelte degli organismi economici sovranazionali. La BCE, infatti, non acquisterà più titoli nei mercati aperti, eppure euribor ed eurirs restano molto bassi. I mutuatari possono sicuramente gioirne, ma tassi così bassi non sono per niente utili all’economia dell’eurozona e, soprattutto, a paesi come il nostro. Secondo i saldi di bilancio previsti, cioè sulla base dei differenziali ottenuti aggregando entrate e uscite, per il triennio 2018-2020, è necessario reperire mediante emissione di titoli di Stato almeno 270 miliardi, tenuto conto del fatto che il 17,8% della spesa dell’anno in corso è destinato alla protezione sociale e alle politiche del lavoro. Qualcuno s’è premurato di raccontare e spiegare tutto questo ai cittadini? Non l’ha fatto il movimento gialloverde, che naturalmente s’è dato da fare per colmare a proprio piacimento questo vuoto, ma non se n’è data pena neppure il PD, che invece avrebbe dovuto informarli correttamente. Nel titolo I della sezione ‘entrate tributarie’ del Rendiconto Generale dello Stato del 2017, si legge la cifra di circa 491 miliardi. Se, nello stesso tempo, si fa la fatica di leggere lo stesso titolo nell’ambito della voce previsionale riguardante la cassa del triennio 2018-2020, ci si rende conto facilmente che la cifra si riduce a 481 miliardi. Allora, siamo costretti a dare un certo merito alla cosiddetta ‘casta’, a questi lobbisti gentiloniani.

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Sappiamo per certo che queste riflessioni ci faranno guadagnare improperi ed epiteti d’ogni genere e specie, ma vogliamo rasserenare gli haters: non ci saremmo schierati col PD soprattutto per questo deficit di comunicazione, che non ci si aspetta in questi tempi e che, per ciò stesso, nasconde altri disagi. L’economia comportamentale c’insegna che, nei periodi di grande incertezza o, per traslazione, quando il vuoto summenzionato ha la meglio sull’informazione, prevale la legge dei piccoli numeri: il cittadino comune tende a giudicare il futuro e gli eventi sulla base della propria capacità di affrontarli; per la qual cosa estende le proprie difficoltà e la propria debolezza all’intero sistema-paese, finendo col perdere capacità di discernimento.

In soldoni: se chi scrive, per esempio, non riesce, come si suol dire, ad arrivare alla fine del mese, mentre Tizio, Caio e Sempronio vanno in auto blu, allora la maggior parte degli italiani è nelle stesse condizioni e quelli con l’auto blu sono il male. Ne consegue: piove, governo ladro, cioè un mottetto che, sulle prime, fa sorridere, ma che, di fatto, diventa un vero e proprio modello d’interpretazione della realtà. Secondo l’antropologo della mente, quando una cultura non sviluppa soluzioni alternative, specialmente di fronte alla morte e sepoltura delle grandi ideologie liberista e socialista, non si trova l’occasione per intraprendere una strada in direzione del futuro. Il futuro, ora, esiste solo come prospettiva temporale di sopravvivenza, ma nessuno indica quale strada percorrere.

Fino a quando il cittadino medio si rifiuterà di accettare che lo Stato, pur non avendo fini di lucro, dev’essere trattato come un’azienda, vale a dire – a scanso di ulteriori equivoci – come un’entità con doveri di bilancio, sanità, istruzione, pensioni, occupazione et similia non potranno essere intese correttamente quali funzioni d’esercizio di un diritto attivo e resteranno pretese amorfe e, talora, insignificanti. Con o senza Bruxelles, per dirla in modo volgare, bisogna far quadrare i conti. Per quanto possa apparire strano, oggi, per dirla ancora con Bertirotti, in buona parte dell’Occidente, tra il cittadino e il governante s’è instaurato un rapporto sul modello della locuzione latina medioevale “mors tua vita mea”. Forse, qualcosa potrebbe cambiare e la blockchain potrebbe esserne la premessa.

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