Giocare con il default e la troika: quel virus chiamato voglia di far saltare il banco

scritto da il 15 Agosto 2018

L’autore di questo post è Corrado Griffa, manager bancario ed industriale (CFO, CEO), consulente aziendale in Italia e all’estero, giornalista pubblicista –

Negli ultimi giorni si è diffuso uno strano “virus” chiamato “voglia di far saltare il banco”, “uscire dall’euro”, sinonimi di “default”; e quando questo virus viene evocato ed espresso da chi riveste incarichi governativi, le antenne si drizzano, il freddo corre lungo la schiena, la mano corre veloce al portafoglio.

Il contesto è chiaro: l’esperienza recente ha dimostrato che sono difficilmente realizzabili riforme strutturali in un contesto di instabilità e/o incertezza politica, assetto istituzionale farraginoso e contradditorio, pubblica amministrazione insensibile al cambiamento. Un ulteriore peggioramento del quadro, dovuto a cause interne od esterne, potrebbe condurre il paese in una situazione di crisi simile a quella del 2011, che fu concentrata sul mercato secondario del debito pubblico, ma non colpì fortunatamente il mercato primario, dove nessuna asta di titoli di nuova emissione venne sospesa od annullata, nonostante la brusca impennata dei tassi di interesse. Ora, nel giro di poche ore lo spread BTP/Bund è salito oltre 270, segno di un diffuso malessere fra gli investitori, in un contesto di evidente deflusso di valuta all’estero.

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Ma che cosa significa “fare default”? Basta una raccomandata con avviso di ricevimento, diretta alla UE, alla BCE, al FMI? O facciamo tutto noi, che sappiamo? Quali sono le conseguenze per il paese?

Quanto è successo a paesi come Argentina e Grecia suona come un chiaro campanello d’allarme. Vediamo quali sono le condizioni che fanno scatenare un “default”, e come si sono comportati Argentina e Grecia nel loro (penoso) percorso.

Storicamente, gli elementi e le condizioni che possono condurre ad un “default” di uno stato sono:

(a) un debito pubblico elevato, critico laddove superi il 90% del PIL, limitando la capacità di crescita; il rapporto debito/PIL dell’Italia è oggi pari al 131,5%;

(b) prolungati periodi di crescita economica negativa, o nulla; in Italia, il PIL ha avuto una dinamica negativa negli anni: -2,5% nel 2012 e -1,8% nel 2013; nel 2014 ha fatto +0,1%, e poi +1% (2015), +0,9% (2016), +1,5% (2017);

(c) una percentuale elevata di debito pubblico posseduto da investitori stranieri, più influenzabili da dinamiche avverse e quindi propensi ad un rapido disinvestimento da titoli pubblici del paese sotto osservazione; tale percentuale era il 52% prima della crisi del novembre 2011, scesa al 30% circa oggi;

(d) flussi di capitale estero legati a fasi pro-cicliche (alti in fasi espansive, bassi o negativi in fasi recessive), rispetto ad investimenti strutturali e stabili;

(e) una struttura del debito pubblico posizionata sul breve periodo, con durate medie del debito residuo brevi, più sensibile ad aumenti improvvisi e/o duraturi dei tassi nominali: era pari a 6,9 anni nel 2011, è ora 6,8 anni (fonte Bankitalia, giugno 2018);

(f) deficit di bilancio pubblico significativi e ripetuti nel tempo;

(g) inflazione elevata;

(h) deprezzamento significativo della valuta nazionale.

La contemporanea presenza di più elementi accresce la vulnerabilità del paese al “default”, che viene accelerato da un “evento-shock” come la svalutazione improvvisa della moneta o l’abbandono di forme di “aggancio” a monete più forti, oppure come conseguenza della crisi di un paese con cui ci siano esposizioni commerciali e finanziarie importanti (come sarebbe il caso della Turchia, oggi).

In Argentina, la irresponsabilità della classe politica emerge come elemento cruciale dello scatenarsi della crisi e della incapacità di gestirla, in particolare sotto gli aspetti di politica fiscale e monetaria. La crisi fu assai acuta, con una caduta del PIL dell’11% nel 2002, un tasso di disoccupazione superiore al 20%, una caduta dei consumi del 13,6%, un crollo degli investimenti del 39%. Gli effetti del “default” ebbero conseguenze sociali gravi e durature, destabilizzando la situazione politica ed economica negli anni seguenti, con una “coda” che si sta manifestando nuovamente a distanza di anni, come dimostra la decisione di alzare il tasso ufficiale per la quinta volta nel corso del 2018 al 45% (13 agosto 2018).

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Grecia. Nell’aprile 2010, al momento della richiesta di un prestito di 30 miliardi di euro al FMI per 3 anni e di un prestito di 80 miliardi di euro alla UE, per totali 110 miliardi di euro pari alla metà del PIL greco, la Grecia presentava alcune debolezze strutturali: alto rapporto deficit/PIL pari al 13,6% nel 2009; rapida crescita del debito pubblico passato dal 100% sul PIL nel 2005 al 148% nel 2010; invecchiamento della popolazione con relative previsioni di aumento delle spese per pensioni e sanità; bassa competitività; capacità di offerta di beni e servizi limitata; istituzioni non favorevoli agli investimenti. Date tali debolezze, il FMI sollecitava un programma di aggiustamento fiscale per ridurre il deficit, per invertire la crescita del rapporto debito/PIL, per riallineare la domanda interna alla effettiva capacità di offerta per migliorare la competitività del paese. In questi anni il paese è passato attraverso crisi istituzionali, tensioni sociali interne, dolorosi tagli al “welfare state”, privatizzazioni forzate (come importanti porti commerciali), limitazioni sull’utilizzo dei fondi via via recuperati; sino a giungere ad una recente (e il tempo dirà se definitiva o provvisoria) uscita dallo stato di crisi finanziaria, e riapertura dei finanziamenti dall’estero.

Le esperienze di Argentina e Grecia sono univoche: il “default” porta come necessaria conseguenza una fase (spesso prolungata, talora ripetuta) di shock, cadute di produzione e reddito, aumento della povertà, tagli profondi alle “misure di sostegno” di un moderno “welfare state”.

Emergono elementi di somiglianza con l’Italia: elevato debito pubblico (al 131,5% del PIL in Italia), irresponsabilità fiscale del governo centrale e locale, immobilità incapacità ed inadeguatezza della classe politica, mercato interno che presenta aree di chiusura alla libera competizione con una rilevante presenza pubblica sia nella erogazione di servizi verso i cittadini e la P.A. stessa attraverso società di scopo, municipalizzate ed aziende autonome che non sono orientate ad una logica imprenditoriale e di profitto.

FMI, UE e BCE hanno ripetutamente consigliato all’Italia di procedere ad un serio insieme di riforme strutturali per ridurre il peso dello stato nell’economia (e quindi attraverso l’apertura dei mercati domestici oggi protetti avviare una crescita virtuosa del gioco competitivo a vantaggio dei cittadini e dell’economia) e ridurre il differenziale competitivo con altre economie. Sin dal 2013 Il FMI (IMF Country Report no. 13/298, Italy 2013 Article IV consultation, p. 9) osserva che “”in assenza di riforme strutturali più profonde, la crescita di medio termine si manterrà bassa””, sollecitando quindi il governo italiano ad intervenire su produttività stagnante, ambiente socio-economico poco adatto alle attività imprenditoriali, settore pubblico assai indebitato. Sono gli stessi punti su cui si era concentrata l’ormai storica lettera della BCE dell’agosto 2011, largamente inascoltata ed inattuata.

A nostro avviso, va scongiurata una eventualità di chiedere il “default”, in qualunque forma esso si sostanziasse: decisione unilaterale di “default”, richiesta di uscita dall’euro (e prevedibilmente, ma non necessariamente, dalla UE come fatto dalla Gran Bretagna), una scampagnata sulle rive del Meno accompagnata da dichiarazioni roboanti (ma sterili).

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Ma tema più importante è: che cosa ci potrà riservare il futuro? Quali potrebbero essere le conseguenze a più lungo termine di un “default” del paese? Superata la fase critica del breve periodo, l’Italia sarebbe in grado di superare lo “shock” e riprendere un percorso di crescita, da lungo tempo abbandonato? Le esperienze di Argentina e Grecia non sono pienamente positive, al riguardo; occorre quindi aver da subito ben chiaro e definito un programma di “recovery” in un nuovo paradigma. In assenza di un simile programma redatto dalla amministrazione governativa, il compito di definirne obiettivi, capitoli, contenuti dovrà essere assunto da nuove forze, preferibilmente presenti nel mondo sano dell’impresa e del lavoro.

Twitter @CorradoGriffa