Un’idea di sviluppo ce l’abbiamo? O vogliamo andare col trattore in tangenziale?

scritto da il 21 Agosto 2018

Dopo i drammatici fatti di Genova, il nostro Paese, intriso sempre più di rancore e nostalgia  si è subito diviso, invece di unirsi e cercare un’identità collettiva, quanto mai necessaria per uscire dalla stagnazione, economica e di pensiero. La politica, con la sola eccezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – che sembra un essere preistorico, elegante, attento all’uso delle parole, all’esattezza del linguaggio (che Dio ce lo preservi) – ha colto l’occasione per incattivire ancora di più gli animi ed è subito – neanche passato un giorno – andata alla ricerca del capro espiatorio. Come se valutare la dinamica del crollo improvviso di un ponte si possa fare così d’emblée, con un tweet o un messaggio su Facebook.

La storia è piena zeppa di capri espiatori. Sono il pane della politica becera e portatrice di nefandezze. Il premio Nobel Elias Canetti nel suo monumentale “Massa e potere” ricorda come Adolf Hitler se la prese con gli ebrei negli anni ’20 per poter scaricare su di loro la causa della crisi della Repubblica di Weimar. La Shoah fu il corollario della strategia del Führer.
Lo storico Giovanni Orsina nel suo recente “La democrazia del narcisismo” (Marsilio, 2018) spiega molto bene la situazione che stiamo vivendo: “Gli elettori mirano a soddisfare il proprio bisogno immediato di benessere psichico scaricando le emozioni negative da cui sono assediati: paura, rabbia, senso d’impotenza. I politici sono in bella vista al centro dello spazio pubblico, con la loro persona più che con le loro idee, e si sforzano di attrarre ogni sguardo”. Ne consegue che “fra elettori e politici è sempre più difficile costruire una relazione sensata, fondata su concezioni condivise della realtà, del tempo e della ragione” (p. 107).

Dopo le elezioni del marzo scorso i messaggi all’opinione pubblica provenienti dalla compagine di governo giallo-verde sono stati i seguenti:

1. Viva la piccola impresa (a cui concediamo la “pace fiscale”, alias condoni), abbasso la grande, le multinazionali sono il “nemico del popolo”. Sono invece le medie e le grandi imprese che innovano, che investono pesantemente nelle risorse umane, che sono disposte a pagare stipendi più alti, grazie alla maggiore produttività. “Piccolo non è più bello”, da quel dì: come fa la piccola impresa ad internazionalizzarsi se non ha le risorse per ingaggiare – anche temporaneamente – un export manager (bravo)?

2. Dobbiamo favorire il “made in Italy” e se necessario applicare dazi alle importazioni.
Non è chiaro come si possano mettere dazi all’import senza subire controdazi sull’export, ma tant’è. Un Paese senza materie prime e grande trasformatore come l’Italia non può che beneficiare dall’apertura dei mercati. Il saldo ampiamente positivo della nostra bilancia commerciale parla da solo. Ad abundantiam rivolgersi a Carlo M. Cipolla, che sostenne la necessità di imprese che producono “merci che piacciono al mondo”. La forza del sistema Italia sono le medie imprese esportatrici, le “multinazionali tascabili”, il cosiddetto “quarto capitalismo”. Vogliamo una nazione chiusa, stantia (la demografia è un fattore chiave ed è sfavorevole), un Paese delle beghine? No, grazie.

3. L’Italia può fare a meno degli investitori internazionali, la finanza è “brutta e cattiva”. Gli ultimi dati ci dicono che anche a giugno gli investitori esteri hanno scaricato BTp per 33 miliardi (a maggio le vendite nette erano pari a 25 miliardi), a luglio e agosto temiamo ancor di più, visti i cali dei mercati azionari e obbligazionari domestici. Gli italiani che desiderano vivere in un mondo chiuso dimenticano il ruolo fondamentale svolto dai prestiti americani nel Dopoguerra (Piano Marshall, gestito con acume e sobrietà dal governatore di Bankitalia, Donato Menichella). Senza la fiducia dei mercati, lo spread (non solo col Bund, ma anche col Bonos spagnolo) continuerà a salire, con grave nocumento per le banche (che li detengono in portafoglio) e quindi per il nostro sistema finanziario, come è noto estremamente bancocentrico.

4. Lo Stato deve svolgere un ruolo ancora maggiore nel percorso di crescita. Il neoliberismo è la causa dei nostri problemi. Come ci ha ben illustrato Corrado Griffa su queste colonne, il peso del settore pubblico allargato nella nostra economia è altissimo, superiore al 75%. Vogliamo che salga ancora? Statalismo parassitario? No. Grazie. Il neolibbberismo (con 3 b) chi lo ha mai visto in Italia?  Se non intendiamo tornare alla “fantasia al potere” degli anni Sessanta, se non vogliamo, con Rovazzi, “andare col trattore in tangenziale”, urge riprendere un cammino di pensiero per ritrovare la via del progresso economico. La decrescita felice non c’è, esiste solo la decrescita in-felice.

Dove si prendono le risorse per il welfare se l’economia non cresce? Prima di dividere le fette, la torta va creata. Dove possiamo trovare le energie morali – decisamente scarse in questo momento pervaso dall’assenza di speranza nel futuro – per ripartire? Vale la pena tornare alle “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci. Si evoca spesso la locuzione gramsciana “pessimismo della ragione, ottimismo della volontà”, ma la citazione ha molto più senso se fatta per intero:

“L’uomo dovrebbe […] aver acquistato una tale convinzione profonda che ha in se stesso la sorgente delle proprie forze morali, che tutto dipende da lui, dalla sua energia, dalla sua volontà, dalla ferrea coerenza dei fini che si propone e dei mezzi che esplica per attuarli – da non disperare mai più e non cadere più in quegli stati d’animo volgari e banali che si chiamano pessimismo e ottimismo. Il mio stato d’animo sintetizza questi due sentimenti e li supera: sono pessimista con l’intelligenza, ma ottimista per la volontà” (lettera al fratello Carlo, 19 dicembre 1929).

Diamoci da fare, tutti insieme, la politica, se ne è capace, fornisca un’idea di sviluppo, un progetto serio per il Paese. Gli industriali – come auspica il presidente Vincenzo Boccia  – lavorino per le “soluzioni”, i sindacati escano dal loro demagogico déjà vu tutto incentrato sulle pensioni e pensino anche alle prossime generazioni. Come ha invitato a fare il manager e imprenditore genovese Carlo Castellano (fondatore di Esaote): “La tragedia può essere superata con un forte slancio che venga dalla società civile, dalle risorse più vitali della città. Il lamento non basta. Dobbiamo riprendere il mano il nostro destino, tornare alle pagine migliori della storia cittadina come il periodo 1840-1860, quando Genova fu la culla di Mazzini e Ansaldo, diede la nascita alla Banca d’Italia” (la Banca Nazionale negli Stati Sardi nel 1861 assume la denominazione di Banca Nazionale nel Regno d’Italia; nel 1893 si unì alla Banca Toscana di Credito e alla liquidata Banca Romana per dar vita alla Banca d’Italia, ndr).

Parole che valgono per Genova, così come per l’Italia tutta.

Twitter @beniapiccone