Chiusura domenicale dei negozi: a chi giova?

scritto da il 14 Settembre 2018

L’autore di questo post è Marco D’Egidio, ingegnere con esperienze professionali nel settore delle costruzioni e nel retail, e un MBA svolto al MIP del Politecnico di Milano – 

La possibile chiusura domenicale dei negozi ha scatenato un dibattito finora più politico, se non vogliamo dire ideologico, che economico. L’argomento più utilizzato a favore della chiusura festiva – ok, con eccezioni e rotazioni delle chiusure, ma non giriamoci tanto intorno – è quello di “restituire la domenica ai padri e alle madri che lavorano, e che così sarebbero più liberi di godersi il riposo con i propri figli”. I contrari invece sostengono che sia proprio con i negozi aperti la domenica (soprattutto i centri commerciali), che molti possono, anzi vogliono!, passare le loro ore di relax in famiglia, contribuendo – en passant – alla buona salute del commercio. Anche il consumatore ha i suoi diritti acquisiti, non vi pare?

Qualcuno, però, si spinge un po’ più sul terreno economico. Ritiene che “chiudendo i negozi un giorno a settimana si farebbero comunque gli stessi acquisti in un altro giorno, magari il sabato”. Cosa che in parte è certamente sensato sostenere, perché non si comprano due lavatrici quando se ne rompe soltanto una, né di quella unica si può fare a meno. Verissimo, ma dacché esistono i centri commerciali e i supermercati, i quali sono concepiti, anche architettonicamente, proprio per invogliare la gente a comprare prodotti che non erano originariamente sulla lista della spesa, è anche vero che meno tempo si lasciano aperti i negozi (soprattutto i giorni festivi), meno queste “shopping walk” hanno probabilità di realizzarsi. Teniamo anche conto che molte catene commerciali incentrano le loro attività promozionali (volantini, sconti vari, sottocosto, etc.) proprio sul weekend. Chiudendo la domenica, si diminuisce la forza attrattiva degli sconti, con tutto il loro potenziale di traino delle vendite su prodotti non scontati (piccola banalità: a nessun esercente piace vendere scontato; se lo fa, è per “guadagnarsi” il cliente).

Qualcun altro allora dice: “Ma tanto la gente a spasso tra i negozi la domenica non compra comunque, si guarda intorno soltanto e poi, semmai, compra online quello che ha visto fisicamente”. In parte è vero anche questo, ma teniamo conto che ogni volta che diciamo “in parte è vero/sensato” c’è anche un’altra parte di consumatori che vorrebbero comprare offline la domenica ma non potrebbero, e che con le chiusure ci perderemmo per strada (anzi a casa). Qui poi veniamo al vero convitato di pietra della vicenda: l’e-commerce.

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Secondo qualcun altro ancora, l’e-commerce non trarrebbe granché vantaggio dalla chiusura domenicale, perché, almeno per noi italiani, “comprare online è ancora cosa da giovani e giovanissimi, che su Internet acquistano comunque, mentre per le famiglie e le persone di mezza età la transizione è più lenta e avremmo tempo per adeguarci”. Che in Italia l’e-commerce sia ancora molto meno sviluppato che negli altri Paesi europei a noi più simili è argomento incontrovertibile: lo confermano i dati dell’Osservatorio Digital Innovation del Politecnico di Milano sulle dimensioni del mercato italiano online B2C. Ma gli stessi dati dicono anche che l’e-commerce sta crescendo (nell’ultimo biennio) a un ritmo del 15-17% annuo, e che nel 2018 il valore degli acquisti online raggiungerà i 28 miliardi di euro, oltre 3,6 in più dell’anno precedente. Ogni stima del possibile travaso di consumatori tra i canali offline e online non può prescindere dalla considerazione che l’online è già (ripeto: già!) in forte crescita, indipendentemente dalle chiusure, da Di Maio, dal Pd e dalla politica tutta.

È ragionevole aspettarsi che, dato questo trend pre-esistente, l’e-commerce non si avvantaggi della chiusura del commercio la domenica? Secondo me, sarebbe una ingenua illusione pensarlo, anche perché – come in battaglia – ad ogni mossa di una parte segue una contromossa dell’altra, e il commercio digitale non starebbe certo fermo a compiacersi del regalo del governo, ma probabilmente metterebbe in atto delle strategie di marketing molto aggressive, in modo da attrarre proprio quella parte di consumatori della domenica, che nessuno è ancora in grado di quantificare in maniera oggettiva, ma che in diversi presumono non essere poi così pochi. Col risultato non certo, ma assai probabile, che il trend di crescita acceleri, a scapito del commercio cosiddetto “tradizionale” (vedi anche il post scriptum). Magari al ministro Di Maio – che ha auspicato la nascita di un “Amazon del Made in Italy” – questa prospettiva piace: l’importante è parlare chiaro e capirsi.

Finora abbiamo parlato di ricavi. Sul lato dei costi, che dire? Può darsi, purtroppo, che certi negozi vadano in perdita tenendo aperto la domenica. Ma libertà di apertura è anche libertà di chiusura. Certo, anche tenere chiuso (perché in perdita) avvantaggia ulteriormente il concorrente più forte che tiene aperto, ma la colpa di questo non è “della domenica”, ma di una serie di fattori intrinseci all’attività e al modo di gestirla. Non ci si illuda di limitare i danni dei negozi in perdita, imponendo a tutti la chiusura domenicale. Se le nostre città si ripopoleranno di botteghe (io lo spero), sarà l’effetto di idee innovative di business e di politiche urbanistiche, di riqualificazioni e iniziative culturali: cioè di politica “vera” sul territorio, altro che divieti orari generalizzati.

No, la questione della chiusura domenicale dei negozi (ovunque siano collocati) non dovrebbe essere affrontata né con l’argomento del sacrosanto riposo dei lavoratori, né con quello della libertà del consumatore. Se vogliamo agevolare l’e-commerce nazionale, e fargli recuperare terreno rispetto ai nostri competitor europei, la chiusura appare certamente la strada giusta. Se però pensiamo di poter far chiudere i negozi a costo zero per il commercio fisico e per la connessa occupazione, allora il rischio di prendere un abbaglio è molto forte.

Post Scriptum. In questo periodo di dichiarazioni e interviste non è chiaro se il governo (tutto) intenda imporre il blocco domenicale anche dell’e-commerce. La proposta di legge 526 dello scorso 17 aprile (il governo ancora non c’era…), presentata dai 5 Stelle, lo prevede espressamente, ma – come si legge nella relazione – «Nei giorni festivi il consumatore potrà continuare a collegarsi ai siti di e-commerce, scegliere e completare l’ordine di un prodotto, ma dovrà essere chiaro che l’attività commerciale in questione, se si svolge in Italia, non sarà esercitata in alcune delle sue fasi». Tradotto e interpretato, parrebbe che, lato consumatore, dovrebbe rimanere tutto come oggi, mentre, lato esercente, l’ordine verrebbe processato soltanto dal lunedì successivo. Un blocco del lavoro, non dell’impulso al consumo.

Twitter @marcoz984