La globalizzazione ci ha arricchito o impoverito? Il caso di studio cinese

scritto da il 26 Settembre 2018

L’autore è Enrico Mariutti, ricercatore e analista in ambito economico ed energetico. Founder della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e membro del consiglio direttivo dell’Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) –

Nel corso degli ultimi venti anni lo sviluppo dell’economia cinese ha alimentato le inquietudini occidentali.
Con una popolazione di quasi un miliardo e mezzo di individui e una tradizione imperiale millenaria la Repubblica Popolare ha fatto sentire improvvisamente il fiato sul collo a Europa e Stati Uniti.
 Per la prima volta dopo la caduta del Muro di Berlino è apparso all’orizzonte quello che può sembrare un competitor credibile nella sfida per l’egemonia mondiale. Un modello autoritario, visceralmente antidemocratico e ostile al libero mercato. Un modello realmente diverso, alternativo.

Parallelamente, gli imponenti fenomeni di delocalizzazione industriale sperimentati da gran parte delle economie avanzate e la proliferazione di prodotti made in China hanno rafforzato nell’opinione pubblica occidentale la percezione di un declino economico e politico dell’Europa e soprattutto degli Stati Uniti, il campione della democrazia e del libero mercato. 
È realmente così? Tra il 1981 e il 2015 il tasso di povertà in Cina è passato dall’83% al 1,4%. Se nel 1981 quattro cinesi su cinque erano poveri, nel 2015 solo 14 su mille erano poveri. E nel frattempo la popolazione è passata da 990 milioni a oltre 1 miliardo e 370 milioni. 
Ma, mentre centinaia di milioni di cinesi sono passati dalla fame a condizioni di vita più o meno dignitose e un Paese di quasi 10 milioni di Km2 è passato dalla periferia al centro della rete dei traffici globali, l’Europa e gli USA non si sono impoveriti. Anzi.

Credit Suisse, che conduce un’indagine annuale sulla variazione dello stock di ricchezza globale e sulla sua distribuzione, stima che tra il 2000 e il 2017 la ricchezza pro-capite in Europa è più che raddoppiata, passando da 60.000 a 135.000 dollari. Trend analogo in Nord America, dove è passata da 200.000 a 374.000 dollari.

Gli USA insieme ai cinque grandi Paesi europei (Germania, Francia, Gran Bretagna, Italia e Spagna) e al Giappone detengono ancora oggi più del 60% della ricchezza mondiale, a fronte del 10% in mano cinese.
 Allora, come è stato possibile che, mentre nei Paesi in via di sviluppo centinaia di milioni di persone uscivano dalla povertà, le opulente democrazie occidentali hanno mediamente raddoppiato la ricchezza pro-capite? E che, specularmente, nell’opinione pubblica occidentale si sia radicata la percezione di un marcato declino economico?

La risposta è semplice: al contrario di quello che vogliono far credere sovranisti, paleo-conservatori e terzomondisti, l’economia mondiale non è un gioco a somma zero, in cui per aumentare il proprio benessere bisogna necessariamente strapparlo a qualcun altro. Tra il 2000 e il 2017 lo stock di ricchezza mondiale è più che raddoppiato, passando da 117.000 miliardi a 280.000 miliardi di dollari.

L’arricchimento globale è stato possibile grazie a una più efficiente suddivisione dei compiti a livello internazionale, che ha valorizzato i vantaggi competitivi di ciascuna economia nazionale. 
L’interconnessione delle filiere industriali ha innescato una redistribuzione delle fasi produttive su scala globale, alimentando la rete dei traffici commerciali internazionali e trasformando ciascun prodotto in un collage di processi aziendali e componenti a cui collaborano anche decine di economie diverse.

Centinaia di milioni di cinesi si sono emancipati dalla povertà lavorando nelle fabbriche in cui vengono assemblati prodotti destinati al mercato globale e quindi, in larga parte, ai consumatori delle economie ad alto reddito, che detengono l’80% della ricchezza mondiale e assorbono più di due terzi dei consumi finali. Contestualmente, disponendo di risorse superiori a quelle necessarie alla sopravvivenza, gli operai e gli impiegati cinesi si sono trasformati in consumatori, garantendo alle imprese occidentali un imponente mercato di sbocco. Solo per fare un esempio, nel 2017 Apple ha venduto poco meno di 50 milioni di iPhone in Cina, a fronte di poco più di 35 milioni di pezzi in Europa (Gartner).

Tuttavia, è indiscutibile che, parallelamente allo straordinario aumento dello stock di ricchezza, si è registrato un pericoloso aumento delle disuguaglianze socio-economiche, particolarmente accentuato nelle economie avanzate. La ripartizione delle eccedenze, infatti, è stata ineguale.
Non è il motore ad essersi ingolfato ma la cinghia di distribuzione. Non è il mercato a essere in crisi ma lo Stato-Nazione.

L’Occidente non deve temere lo sviluppo cinese, che ha pagato e continuerà a pagare un corposo dividendo alle economie occidentali senza metterne in discussione, almeno nel breve/medio periodo, l’egemonia globale, ma piuttosto gli squilibri interni.

Twitter @enricomariutti